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Diari toscani: ‘A quarantotto gradi di temperatura’ di Oberdan Pardini

Il viareggino Pardini viaggia in Arabia Saudita per la Standard Oil la prima compagnia petrolifera americana

Oberdan Pardini nasce a Viareggio nel 1911 dove trascorre l’infanzia e l’adolescenza. A 17 anni si trasferisce in Libia, ai tempi colonia italiana. Vive e lavora a Tripoli fino al ritorno in Italia nel 1970, ma dal 1945 al 1947, proprio negli anni dell’immediato dopoguerra, è in Arabia Saudita. Viene assunto dalla “5° Construction Division & AMET – Project E/Five” una società americana che sta per costruire l’aeroporto di Dhahran. Questa cittadina che si trova a 300 chilometri a est della capitale Riyadh, sulla costa del golfo Persico, non è un luogo qualunque. In questo lembo di deserto nel 1938 la compagnia petrolifera americana Standard Oil ha trovato il primo giacimento petrolifero saudita, attorno al quale è nato un nucleo urbano abitato ancora oggi soprattutto da addetti ai lavori. Quando Oberdan raggiunge Dhahran, Standard Oil ha già effettuato fusioni con altre compagnie statunitensi dando vita alla Arabian American Oil Company (o Aramco), che nel 1988 finisce sotto il pieno controllo del governo saudita diventando Saudi Arabian Oil Company (o Saudi Aramco), la più grande compagnia petrolifera del mondo.

Dhahran , Arabia Saudita, settembre 1945, ecco le condizioni in cui si trova a operare Oberdan Pardini in Arabia Saudita, nel 1945, capo del personale italiano impiegato nella costruzione dell’aeroporto di Dhahran, importante snodo petrolifero.

“Ricordo che lavorare sotto quel telone con una temperatura che sfiorava i 48 gradi era una cosa veramente eroica e la decenza nel vestire era stata mandata al diavolo: via la camicia, via la maglietta, svolgevamo il nostro lavoro a torso nudo. Ho ancora oggi dinanzi a me la visione del buon Pampana con il suo pancione, con un asciugamano inumidito attorno al collo con il quale, ogni due per tre, attutiva il calore del suo corpo passandolo ripetutamente sul torso, sulle braccia e sul torace, incluso il pancione, salvo poi inumidirlo di nuovo attingendo alla cosiddetta acqua ghiacciata, nell’apposito contenitore che era a nostra disposizione… per dissetarci!
Lo scavo per il rifornimento idrico, eseguito immediatamente dai militari del genio al nostro arrivo, aveva dato un risultato non soddisfacente: l’acqua che sgorgava dai tubi dei pozzi, era di dubbio sapore e di un color marrone chiaro tanto che a berla era repellente e dava il voltastomaco. Tuttavia provvisoriamente, e soprattutto in mancanza di meglio, ne facevamo uso. Nel bel mezzo degli uffici avevano installato un nuovissimo cooler, con la bella boccia di vetro piena di quel liquido marrone e quando la sete di faceva assillante, riluttanti e quasi ad occhi chiusi, riempivano un bicchiere di carta con quel liquido indefinibile che tuttavia, grazie alla refrigerazione, diventava quasi insapore e riusciva a calmare la nostra sete.
Ma non potevamo comunque sottrarre il nostro organismo agli effetti negativi di quell’acqua fetida: la prima settimana -finché i responsabili non adottarono dei rimedi- fu un via vai continuo dagli uffici alle rudimentali latrine approntate nelle vicinanze e questo stato di cose si protrasse sino a quando non furono installati i depuratori d’acqua resisi oramai indispensabili.
Non so come fosse organizzata la mensa, ma assommando l’acqua cattiva al cibo tipicamente americano che i nostri lavoratori non gradivano, cominciarono i mugugni, di cui parlerò in seguito.
La necessità non guarda in faccia a nessuno e come successe per un caso molto, diciamo, impellente, trovandomi un giorno fianco a fianco con Mr. Corcoran seduti su quelle maleodoranti costruzioni che rispondevano al nome di latrine, dopo l’inevitabile rossore d’ambedue per l’inusuale condizione e situazione in cui ci trovavamo, una franca risata liberatoria spazzò via ogni sorta il pudore e finimmo… la nostra incombenza!
Ci sembrò di aver cementato di più l’amicizia e la stima reciproca in vista dell’aspra vita che avremmo dovuto condividere chissà per quanto tempo in quel deserto brullo e inospitale.”

Brano tratto da “Italiani all’estero. I diari raccontano” un progetto realizzato con il contributo della Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Un progetto di Nicola Maranesi per l’Archivio diaristico nazionale. Consulenza editoriale di Pier Vittorio Buffa. Ricerca d’archivio e redazione testi: Laura Ferro e Nicola Maranesi. Ricerca iconografica e organizzazione delle fonti documentali: Antonella Brandizzi. Fotografie di Luigi Burroni.

Per informazioni:
https://www.idiariraccontano.org/

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