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Codice Rosa un’eccellenza toscana diventata legge in tutta Italia

Intervista alla dottoressa Vittoria Doretti Responsabile Regionale Codice Rosa della Regione Toscana

Il Codice Rosa nasce nel 2010 nell’Azienda USL 9 di Grosseto come progetto pilota con la finalità di assicurare un più efficace coordinamento tra le diverse istituzioni e competenze per dare una risposta efficace già dall’arrivo della vittima di violenza in pronto soccorso. Nel 2011 con la sottoscrizione del protocollo d’intesa tra la Regione Toscana e la Procura Generale della Repubblica di Firenze, diventa progetto regionale. Nel gennaio 2014 si completa la diffusione a livello regionale con l’estensione della sperimentazione a tutte le Aziende sanitarie toscane e nel 2016 viene costituita la Rete regionale Codice Rosa per gli interventi a favore di persone adulte e minori vittime di violenze e/o abusi – delibera Giunta regionale 1260 del 5 dicembre 2016

Il Codice Rosa è un percorso di accesso al pronto soccorso riservato a tutte le vittime di violenza, in particolare donne, bambini e persone discriminate. È attivo qualunque sia la modalità di accesso al servizio sanitario, sia esso in area di emergenza- urgenza, ambulatoriale o di degenza ordinaria e prevede precise procedure di allerta ed attivazione dei successivi percorsi territoriali, nell’ottica di un continuum assistenziale e di presa in carico globale. Il percorso opera in sinergia con Enti, Istituzioni ed in primis con la rete territoriale del Centri Antiviolenza, in linea con le direttive nazionali e internazionali.

Ecco la nostra intervista alla dottoressa Vittoria Doretti Responsabile Regionale Codice Rosa della Regione Toscana.

Dottoressa com’è nata l’idea del Codice Rosa?

Il Codice Rosa nasce da un progetto del 2008, che si è concretizzato nel 2009, nell’evidenza della differenza profonda di dati che emergevano dalla procura provinciale, in confronto ai dati del nostro centro antiviolenza e a quelli che noi come azienda sanitaria di Grosseto avevamo archiviato: due mondi diversi. Da questo incrocio su casi concreti, abbiamo deciso di ricostruire una visione d’insieme e congiunta con la procura di Grosseto e la polizia giudiziaria sulla base di corsi di formazione un po’ particolari in cui eravamo tutti allo stesso tempo docenti e discenti. Soprattutto è stata importante la visione che ci arrivava dalle operatrici dei centri antiviolenza che sul nostro territorio hanno una tradizione storica e un’impostazione che è la principale da usare nei rapporti con le donne vittime di violenza. Noi avevamo già una legge ottima sui consultori ma dovevamo mutuare una nuova modalità di approccio. Quindi nel settembre 2009 è nata la decisione di mutuare quello sguardo, quel ‘sentire’, quella modalità propria delle operatrici dei centri antiviolenza nel luogo ‘più violento’, che all’epoca era forse anche il meno adeguato quello dell’emergenza del pronto soccorso. Non perché fosse il setting più adeguato, il posto più giusto, ma perché era il posto dove prima o poi sicuramente una donna sarebbe passata o comunque la maggior parte delle donne che hanno subito violenza sarebbero passate. Era il luogo dove c’era meno preparazione proprio per la struttura stessa di un pronto soccorso. Abbiamo dunque fatto uno sforzo grandissimo per immaginarci una modalità nuova.

Che cos’è cambiato con il nuovo Codice Rosa?

Sono stati aperti importanti tavoli di lavoro multidisciplinari, c’è un tavolo molto importante coordinato dalla vicepresidente Monica Barni e dall’assessora Stefania Saccardi che raccoglie tutti gli assessorati e tutti i centri anti-violenza a livello regionale. Come sanità è stata fatta una scelta bellissima perché abbiamo puntato sul processo culturale intensivo. Non è che prima mancassero le procedure, quelle le abbiamo migliorate, è un continuo tentare di migliorarle dal punto di vista forense. Ma quello che ha fatto la grande differenza, siamo passati da due casi in tre anni a Grosseto, ad oltre 300 e il secondo anno addirittura a 500, è stata la crescita culturale dello sguardo degli operatori. È uno sguardo doveroso, faticoso, difficile. L’unico modo per avere questo sguardo attento e non essere sopraffatti è proprio quello di fare squadra, sapendo che c’è alle spalle una rete, migliorandola ogni giorno. Per abbattere la solitudine delle vittime dobbiamo prima di tutto combattere la solitudine in cui si trova un operatore o un’operatrice sanitario. Questa è la forza della scelta politica voluta dalla Regione Toscana. Il Codice Rosa non è un progetto singolo è una rete con procedure comuni, non c’è un ospedale di serie A e uno di serie B. Tutti devono non sentirsi soli, il pronto soccorso sperduto in montagna si sente in rete con il grande ospedale.

Come funziona praticamente il Codice Rosa, cosa succede quando arriva una donna con percosse?

Il Codice Rosa che è diventata ormai da due anni legge di stato funziona così: nel caso ci sia un sospetto di violenza che può partire già dall’ambulanza oppure è la donna stessa all’accettazione a dirlo: ‘sono un codice rosa’, l’infermiere del Triage deve farla accedere immediatamente a una stanza dedicata. Anche se c’è solo un’echimosi la donna deve essere accolta subito in una stanza ‘rosa’ che esiste all’interno di tutti i pronto soccorsi toscani perché quello può essere un momento molto pericoloso e particolare. La stanza non è ‘rosa’ ovviamente anzi deve essere il più anonima possibile proprio per non creare la vittimizzazione secondaria della donna, è un luogo dove la donna può stare senza farla andare in giro per l’ospedale, sono i singoli professionisti che scenderanno da lei. La regola è che prima di entrare in questa stanza loro apprenderanno il più possibile dal medico o dall’infermiere per evitare il ripetersi di domande, anche questa una forma di vittimizzazione secondaria. La donna dovrà restare il più possibile in questa stanza che è come una ‘nicchia’ che dobbiamo crearle intorno.

Resta il fatto che nessuno può mai sostituirsi alla donna nella denuncia delle violenze, come si agisce se la violenza è reiterata?

Esistono delle norme deontologiche e anche delle leggi. Chiaramente se arrivano bambini vengono fatti degli accertamenti, ma la cosa che deve essere ben chiara è che non ci deve essere nessuna spinta o induzione da parte nostra. Quello che noi dobbiamo fare è sostenere l’empowerment della donna. Questa è una delle lezioni che speriamo di aver imparato dai centri di anti violenza. Rafforzare la possibilità che possa fare scelte consapevoli e questo vuol dire magari mostrare alla donna e facilitare il suo passaggio a servizi di accoglienza, come centri anti violenza o assistenti sociali. L’obiettivo non è quello della denuncia ma quello di sostenere la donna nelle varie fasi, a volte basta anche solo un abbraccio. Lei deve sapere che può venire e che noi faremo di tutto per creare un luogo accogliente anche dov’è molto difficile. L’input non deve mai essere quello di forzare alla denuncia.

In tutti questi anni di Codice Rosa le donne secondo lei sono cambiate?

Assolutamente sì. Le donne sono cambiate, ce lo confermano i dati dell’Osservatorio Sociale della Regione Toscana che è preziosissimo, è un valore aggiunto al nostro lavoro. Ha mostrato con anni di anticipo quello che ci ha confermato l’Istat cioè che le donne più giovani in modo molto più rapido interrompono quella che è una relazione deviata. Ma dobbiamo tenere presente anche che la violenza di genere ha assunto anche connotati e modalità nuove, dobbiamo studiare molto per capire la violenza sul web, il cyberstalking, i crimini di odio, come il cyberbullismo, la violenza digitale fino ad arrivare all’hate-speech. Tu mi chiederai: cosa c’entra il linguaggio con il pronto soccorso? Noi dobbiamo studiare queste nuove forme di violenza così come studiamo nuove patologie, o una nuova medicina. Dobbiamo studiare anche il mondo digitale e quanto può ferire questo tipo di violenza perché ci arriva comunque ‘mascherata’ da tentato suicidio. Se una cosa non la conosci non potrai curarla e questo vale anche di fronte a un fenomeno così odioso come la violenza di genere.

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