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Caterina Bueno la ‘Raccattacanzoni’ raccontata da Francesco Corsi

Il regista del documentario ‘Caterina’ ci racconta la vita di questa straordinaria donna considerata la regina del folk italiano

Caterina Bueno la ‘Raccattacanzoni’ raccontata da Francesco Corsi

Una ragazza appena ventenne con la sua cinquecento gira in lungo e largo tutta la Toscana alla ricerca di canzoni popolari, ninna nanne e filastrocche dei contadini che poi registra e conserva. Nasce così la ‘leggenda’ di Caterina Bueno la ‘regina’ del folk italiano, una delle etnomusicologhe più importanti al mondo che ha raccolto un patrimonio poetico e politico di valore inestimabile che racconta le ingiustizie sociali, la fatica, la lotta, la povertà e la condizione delle donne.
Caterina nasce a Fiesole il 2 aprile 1943, figlia della scrittrice svizzera Julia Chamorel e del pittore spagnolo Xavier Bueno. Sin da ragazzina comincia a girare per campi, mercati e osterie registrando le melodie e i testi della tradizione orale contadina. La sua voce è la voce-simbolo di una Toscana del dopoguerra rurale ed essenzialmente povera: basti pensare a canzoni come Maremma Amara o il Lamento del carbonaro. Senza il suo lavoro, questo patrimonio culturale sommerso sarebbe scomparso per sempre.
La sua attività di ricerca è unita a un’incessante impegno sui palchi italiani e internazionali, a partire dagli anni ’60, con il pionieristico spettacolo ‘Bella Ciao’ del Nuovo Canzoniere Italiano (insieme a Giovanna Marini, Giovanna Daffini, Michele Straniero e altri) e con la partecipazione allo spettacolo ‘Ci ragiono e canto’ di Dario Fo, fino a spettacoli rivolti alle varie espressioni del folk italiano, come ‘Ed ora il ballo’, o alle esibizioni all’interno del Folk Studio di Roma.
Caterina è diventata, col tempo, una figura cardine per ampi settori del mondo musicale: è stata ispiratrice e maestra per cantanti, interpreti e cantautori. Ha lanciato molti talenti musicali, artisti che, dopo un periodo di collaborazione con lei, sono diventati interpreti di eccellenza. La prima grande scoperta di Caterina è il cantautore Francesco De Gregori che giovanissimo l’ha accompagnata come chitarrista nella tournée del ’71. Ma Caterina ha ‘scoperto’ anche Riccardo Tesi, compositore e organettista toscano, che insieme al chitarrista toscano Maurizio Geri, sono due fiori all’occhiello della musica popolare attuale.

Così Francesco de Gregori la descrive nella canzone ‘Caterina’ del 1982:
“Poi arrivò il mattino e col mattino un angelo e quell’angelo eri tu,
con due spalle uccellino in un vestito troppo piccolo e con gli occhi ancora blu
E la chitarra veramente la suonavi molto male, però quando cantavi sembrava carnevale
E una bottiglia ci bastava per un pomeriggio intero, a raccontarlo oggi non sembra neanche vero”

Abbiamo chiesto di raccontare la vita di Caterina al regista Francesco Corsi autore del documentario ‘Caterina’ del 2019.

Ciao Francesco, come ti è venuta l’idea di realizzare il tuo documentario? Hai conosciuto Caterina?
Non l’ho conosciuta fisicamente ma musicalmente attraverso varie cassettine e concerti che ho sentito. L’idea mi è venuta perchè ho incontrato alcuni dei suoi ultimi collaboratori che sono finiti poi nel film. L’idea di indagare su questo personaggio ce l’avevo da qualche tempo perché come documentarista ho sempre affrontato temi legati alla memoria e a come la memoria si trasforma o viene metabolizzata o anche come si perde. Che tipo di rapporto c’è tra una comunità e la sua memoria.

Leggendo le varie biografie di Caterina Bueno mi sono chiesta da dove scaturissse questa sua voglia di andare a ricercare e registrare canzoni e melodie in giro per la Toscana. Forse l’imprinting è venuto da questa sua famosa ‘tata’ che le cantava canzoni quando era piccola?
Credo ci siano un paio di con-cause. L’innesco è stato sicuramente quello che dici te, la tata e il marito che le cantavano canzoni popolari. Ma tutto questo non avrebbe portato a nulla se non ci fossero state anche la curiosità fortissima in Caterina di scoprire questo mondo sommerso e poi il fatto che provenisse da una famiglia non radicata sul territorio toscano. Il padre spagnolo e la madre svizzera facevano parte di un gruppo sociale cosmopolita di artisti. In qualche modo il non avere radici, l’essere quasi apolide l’ha spinta a cercare radici dove le stava intravedendo, è come se si fosse voluta costruire nuove radici seguendo queste tracce sommerse.

Caterina è stata anche un’anarchica ed è stata spesso contestata come quando portò in giro lo spettacolo ‘Bella ciao’, dicevano ‘Io non sono venuta qui per sentir cantare la mia donna di servizio’. In un certo senso alla base della sua ricerca c’è anche una carica fortemente rivoluzionaria
Si assolutamente, è una componente insita in quello che lei faceva. Le canzoni che lei raccoglieva non erano strutturalmente di protesta, ma raccontando le condizioni di vita di un carbonaio, di un contadino o di un emigrante che andava in Maremma e moriva di malaria, erano denunce di condizioni di miseria e di sfruttamento. Quindi ricantandole negli anni ’60 acquisivano un valore politico forte e provocavano reazioni come successe a Spoleto nello spettacolo raccontato da Giovanna Marini nel documentario. L’alta borghesia vedeva con paura quello che stava succedendo, cioè il canto della donna di servizio su un palco normalmente riservato a canzoni e spettacoli per la classe agiata. Il messaggio diventava di grande attualità. Caterina è stata anche la portavoce di un cambiamento sociale per la condizione della donna. Metteva l’accento su una condizione femminile che era anni luce rispetto a quello che possiamo vivere oggi, una situazione in cui la donna non aveva diritti, era ultima tra gli ultimi. Già il canto contadino era un canto degli ultimi, la donna era l’ultimo gradino di questa scala sociale. Nella canzone ‘La leggera delle donne’ ci sono vari passaggi in cui la posizione della donna viene guardata con sospetto e disprezzo, è uno sguardo puramente maschile perché alla fine il maschio ha paura della donna che si emancipa. Questo valeva 40 anni fa e purtroppo vale anche oggi.

Si dice spesso che il canto popolare italiano è triste e malinconico perché nascendo da una classe sociale che lavora duramente e soffre non potrebbe essere altrimenti. Ma non è più giusto dire che come accade anche in altre tradizioni come il Gospel per esempio c’è anche un parte di gioia?
Il mio è uno sguardo da appassionato non da esperto. Il critico musicale che disse che il canto popolare è triste e malinconico fu contestato da Dario Fo. La canzone ‘Ho visto un re’ basata su un canto che aveva ritrovato Caterina serviva per prendere in giro proprio questo critico. È ovvio la parte malinconica c’è sempre, ma ci sono anche momenti di allegria e di ribaltamento della visione tragica della vita con un approccio ironico. Io credo molto nell’universalità della musica popolare, c’è un collegamento forte con altre espressioni di canto come potrebbe essere il blues, il gospel o i canti balcanici o irlandesi, luoghi dove il canto popolare è ancora molto presente. Tra le canzoni che ha trovato Caterina ce ne sono molte che per esempio denunciano mantenendo però un’impostazione ironica molto forte come ‘Il canto di Livorno’, ‘Lasciali fare gli rompi le zampine’ una canzone che parla dei pidocchi, miseria nera raccontata con leggerezza.

Giustamente citi dei paesi dove la musica popolare è molto forte, in Irlanda tutti cantano le canzoni folk tradizionali, in Italia questa cosa si è persa, come mai secondo te?
È vero, è andato tutto perso. La domanda che te fai è quella che mi ha spinto a fare questo film. Credo che ci siano varie cause, una di queste è che il maggior serbatoio di canto popolare, cioè tutto il mondo e la società contadina sono scomparsi con il boom economico degli anni ’60. Quindi a maggior ragione è stata importante Caterina perché ha salvato dall’oblio un immenso patrimonio musicale. Però questo mondo è sparito, è sparito quel modo di fare cultura, di aggregarsi, di fare famiglia. I luoghi in cui questa tradizione si è mantenuta di solito sono isole geografiche come l’Irlanda o geopolitiche come i Balcani, oppure piccole comunità di immigrati in Australia o in America, lì si mantiene perché la tradizione fa parte di un discorso di coesione sociale e costruzione della comunità. Qui la comunità è cambiata, si è trasformata, è diventata tutt’altro.

Caterina è stata anche un grande scopritrice di talenti come Francesco De Gregori, Riccardo Tesi, Maurizio Geri. L’incredibilità di Caterina si capisce anche da questo, da quante persone nel tuo film dicono che la loro vita sarebbe stata diversa senza di lei
Questo è un dato che tutti rimarcano, prima di qualsiasi rapporto professionale c’era anche una connessione umana fortissima. Caterina nelle campagne toscane, da sola a vent’anni in luoghi che normalmente erano frequentati solo da uomini, aveva questa carica di empatia e simpatia con chi le stava davanti. Una persona fuori dall’ordinario proprio nel senso etimologico del termine, perché riusciva a creare queste connessioni molto facilmente e sempre a un livello profondo. Non a caso Giovanni uno dei protagonisti del mio documentario, con cui il film si apre e chiude, ha conosciuto Caterina tramite amici comuni. Lui non cantava e non faceva nulla, ha cominciato ad assistere alle prove e poi è diventato la seconda voce di Caterina, cantante, arrangiatore. Caterina coltivava queste capacità e sensibilità.

Caterina Bueno ci lascia un archivio enorme di canzoni. Cosa possiamo imparare da lei?
Che la memoria ha senso vederla in termini di interpretazione del presente, in senso rivoluzionario, non in termini nostalgici. In una parte del mio film lei dice: ‘io non sono mai stata nostalgica perché avere nostalgia di tempi in cui i diritti non c’erano è assurdo, ho nostalgia per le persone che ho incontrato, ho affetto per un mondo che è finito e allo stesso tempo la consapevolezza che quelle canzoni e quel mondo raccontato oggi può essere uno stimolo per interpretare il presente’. È il suo manifesto.

Il documentario di Francesco Corsi sarà proiettato: il 5 marzo al Teatro La Compagnia di Firenze, il 6 marzo al cinema Pegasus di Spoleto, il 7 marzo al Piccolo Cineclub Tirreno di Follonica, il 10 marzo al Teatro La Compagnia di Firenze, il 13 marzo al cinema Astra di Modena, il 22 marzo al cinema Prima Materia di Montespertoli, il 23 marzo al cinema Nuovo Pendola a Siena e il 31 marzo al cinema Arsenale di Pisa.

Per informazioni:
http://www.caterinabueno.com/

 

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