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© Mara Giammattei

Cultura /

Dal terrorismo al teatro: le mille incredibili vite di Gea Testi

La scrittrice, attrice e regista aretina porta in scena venerdì 4 settembre il suo nuovo spettacolo ‘Finzioni’

All’età di 16 anni nel 1994 la piccola Gea Testi viene arrestata dalla polizia di Arezzo in quanto a capo di una pericolosa organizzazione terroristica che si aggirava tra le vie della città aretina affiggendo sui muri poster con un logo raffigurante Paperinik bendato circondato dalla falce e martello. Il nome della gang di pericolosi malfattori era ‘Brigate partigiane’. Da quegli anni di ribellione giovanile molte cose sono cambiate ma quello che non è cambiato è lo spirito irriverente, anarchico e reazionario di questa giovane autrice teatrale che vuole dire sempre la verità. Dopo aver lavorato molti anni come graphic designer, Gea lavora oggi principalmente come maggiordomo presso i suoi due gatti. Nel tempo libero si dedica al teatro e ha trovato una ‘casa’ amorevole all’interno dell’Arezzo Crowd Festival dove venerdì 4 settembre andrà in scena con la sua prima regia, ‘Finzioni’ titolo ispirato a Borges, con tre monologhi tratti da Fredric Brown, Achille Campanile e Giorgio Manganelli. Quando la intervistiamo nella sua casa piena di libri, tazze e bestioline che ti si strusciano addosso pretendendo amore anche da un’estranea come me, Gea indossa una collana con scritto ‘Ho sempre sognato’, forse niente la può descrivere meglio di così.

Ciao Gea! Come e dove sei cresciuta?



Ho avuto un’adolescenza e una giovinezza molto particolari. Ragazza di provincia ad Arezzo sono cresciuta in mezzo a un divario sociale molto forte tra una gioventù molto ricca, benestante, i figli dei proprietari delle fabbriche dell’oro e gli altri ragazzi che vivevano come me in periferia. Ho sempre avuto una vena creativa e volevo studiare all’Istituto d’arte, i miei me lo impedirono perchè ad Arezzo erano chiamate ‘le scuole buffe’. Perchè si pensava che fossero delle ‘finte scuole‘ in cui non si imparava in realtà niente. C’era una considerazione dell’arte molto bassa, ora non è più così il mondo si è evoluto e ammorbidito, ma negli anni ’90 erano le ‘scuole buffe’. Il termine ‘buffo’ è interessante’.

Quando hai capito che ti piaceva il teatro e che volevi fare teatro?

Nella mia vita c’è sempre stata una passione creativa legata alla comunicazione. Ho studiato architettura, ho sempre amato scrivere e leggere, sono una divoratrice di libri. Quando ho finito l’università ho pensato che il mio destino fosse quello di unire tanti modi diversi di comunicare. Il disegno è diventato il mio mestiere, faccio la graphic designer. Però ho sempre avuto un grande amore per la scrittura, per la lingua italiana e per i testi. Pian piano nel tempo incuriosita ho iniziato ad avvicinarmi a tante grammatiche diverse, quella legata al corpo e quindi all’atto performativo e qualche anno fa anche la grammatica teatrale. Ho iniziato rimanendo nella mia comfort zone, studiando qui ad Arezzo a 600 metri da casa presso lo Spazio Seme un centro artistico internazionale. Lì ho fatto un anno di teatro di improvvisazione, poi sono andata a Sesto Fiorentino a studiare al Laboratorio Nove. A Sesto ho sentito un cambiamento nel mio approcciarmi al teatro perchè mi sono trovata in una situazione quasi surreale. Ero in un gruppo di persone che sembrava un po’ un’armata Brancaleone, persone diversissime dai 15 ai 60 anni con tante difficoltà. C’erano persone con problemi enormi di timidezza, bloccati fin quasi al mutismo, una signora dislessica. Io che sono una che non si arrende mai, sono molto testarda, ho scritto una drammaturgia per questo gruppo.

Negli ultimi anni ho fatto un percorso personale anche grazie al teatro che mi ha permesso di superare una cosa che è tipica degli esseri umani che è la vergogna. Spesso ci vergogniamo tanto, di tutto, di essere 10 chili di troppo, di piangere, invece sono tutte cose che appartengono all’essere umano

É stata la tua prima drammaturgia?

Sì, esatto, il titolo era ‘Come le sedie a dondolo’. Ho inserito due personaggi a cui tengo molto e a cui sono molto affezionata che rappresentano le due parti di me. Uno che è quello che ho interpretato io è una papessa che viene dal ‘400, rappresenta il personaggio che negli anni mi ha permesso di sopravvivere rispetto a tantissime cose che una donna con un corpo non conforme come il mio deve subire. Tu ti costruisci un personaggio che va quasi all’estremo perchè il fatto di possedere un corpo non conforme diventa quasi un punto di forza. Ne DEVI fare un punto di forza per sopravvivere e la papessa rappresenta questo, un personaggio eccentrico. Sul palco a teatro è come se valesse tutto, come se ci fosse un’accettazione che nella vita reale poi non c’è. La papessa è una donna grande, grossa che però balla e canta, non si fa fermare dalla vita reale. L’altro personaggio a cui tengo molto l’ho preso in prestito da Dante Alighieri ed è Puccio Sciancato collocato nel girone dei ladri. Mi sono innamorata di lui perchè qualche anno fa mi è stato diagnosticato un linfedema agli arti inferiori, anche lui è un disabile ma vive la disabilità non con tristezza o con un senso di resa, ma anche in questo caso come un punto di forza. Puccio è un po’ un furfante buono, un ladro semplice, lui dice ‘io ho sempre rubato di giorno e mai di notte’. Lui rompe le regole ma in maniera buona, come facevo anch’io da piccola. Dice una cosa bellissima: ‘le lagne sono come le sedie a dondolo, si muovono ma non portano da nessuna parte’. No lamentele, no lagne, diamo dignità a tutto, a quello che siamo come esseri umani, alti, bassi, magri, grassi, brutti, belli, non ce ne frega niente.

Quel gattino che abbracci in una foto chi è?

É stata una performance che abbiamo fatto un anno fa con Officine Montecristo, si intitolava ‘I love you kitty’ e parla di un amore inter specie tra una donna e un gatto. Il gatto in questione Lazzaro, il miglior performer con cui ho lavorato, è un gatto disabile. Quindi ritorna in maniera molto poetica e mai con una visione patetica, la riflessione su come vive una persona disabile. Nella disabilità c’è la dignità della vita. Negli ultimi anni ho fatto un percorso personale anche grazie al teatro che mi ha permesso di superare una cosa che è tipica degli esseri umani cioè è la vergogna. Spesso ci vergogniamo tanto, di tutto, di essere 10 chili di troppo, di piangere, invece sono tutte cose che appartengono all’essere umano e va bene tutto.

Dopo l’esperienza con il Laboratorio Nove poi hai creato lo spettacolo ‘Ana, Eva, Ketty’ che è stato scelto anche da Serena Dandini per il festival ‘L’eredità delle donne’, tre donne che non a caso usavano il loro corpo per fare arte

Credo che ‘Ana, Eva, Ketty’ fosse dentro di me e dentro il mio collega Gianni Barelli da tantissimo tempo e non lo sapevamo. Tutto parte dal fatto che volevamo parlare di Ana Mendieta, un’artista morta giovanissima perchè uccisa dal compagno anche lui artista, che l’ha lanciata dal 44esimo piano di un grattacielo di New York. Confrontandomi con Gianni che è un artista abbiamo deciso di inserire nello spettacolo altre due storie di donne artiste, morte tutte prima dei 40 anni, sempre vissute all’ombra di qualcun altro, un uomo, riprendere in mano le loro vite e renderle infinite, come se non fossero morte. Volevamo anche tirarle fuori da una nicchia, perchè sono artiste conosciute da chi si occupa d’arte, ma non ‘famose’. Alla fine della performance noi restiamo col pubblico per parlare di loro, e la cosa bellissima è che la gente ci chiede notizie di loro come se fossimo loro parenti, come se le avessimo davvero conosciute, è una cosa bellissima ed eccezionale. Oltre ad Ana Mendieta parliamo di Eva Hesse un’artista ebrea che ha vissuto il nazismo e Ketty La Rocca un’artista italiana a cui siamo molto affezionati, la chiamiamo con il nome di battesimo ‘la Gaetana’, che ha fatto parte del movimento della poesia visiva. Sono tre donne che hanno avuto una visione del femminismo molto cruda e reale. Vite interrotte che noi abbiamo ripreso per portare avanti la loro ricerca artistica. Per me è una performance molto dura dal punto di vista emotivo, a volte è capitato che io mi sia bloccata e mi sia messa a piangere. Quando ti prendi in carico la vita di qualcun altro, succede che ne condividi anche l’emotività e la fragilità, a volte piangi e non importa. Io odio il palco, il distacco dal pubblico, voglio che ci sia sempre condivisione. Evito di usare la quarta parete, per me vedere i sentimenti sul volto delle persone davanti a me è una ricchezza incredibile, la magia del teatro.

Poi l’anno scorso d’estate è andato in scena uno spettacolo sulla tua infanzia, un monologo

É uno spettacolo che ho fatto in un paesino in provincia d’Arezzo Meliciano, che ogni anno fa una ‘Promenade’, un percorso con tante performance teatrali, tanti momenti in luoghi diversi. Mi è stato chiesto di preparare un pezzo che parlasse del mese di dicembre. Dicembre e quindi Natale è un periodo un po’ particolare per tutti, c’è chi lo ama tantissimo, chi lo odia. Io ho dei ricordi molto forti, in quel caso ho parlato di me, è stato un monologo in prima persona. Dicembre è la fine dell’anno, rappresenta la morte ma anche la rinascita perchè poi dopo c’è sempre gennaio. Dopo un lutto, un trauma, the show must go on, ci si rialza e si va avanti. Tramite dei filmati veri, super8 d’epoca ho parlato di cose che non appartengono più a questo mondo. Nel video c’è un’immagine molto cruda di mia nonna che uccide e ‘sbuccia’ un coniglio, come si faceva negli anni ’80. É una cosa che oggi la gente non vuole vedere, è abituata a trovare la carne al supermercato pulita, preparata. Per me quando ero bambina era normale vedere mia nonna che tirava il collo alle galline, adesso non mangio carne e sono molto più simpatizzante col mondo animale rispetto a quanto lo ero prima, ma credo che questa cosa mi sia servita per avvicinarmi alla consapevolezza della morte. Noi esseri umani siamo programmati per aggrapparci alla vita, ma a un certo punto bisogna anche lasciar andare.

Veniamo allo spettacolo che andrà in scena venerdì 4 settembre all’interno dell’Arezzo Crowd Festival, cosa puoi anticiparci?

Il titolo ‘Finzioni’ è una citazione di Borges, lo amo da quando sono bambina. Nella mia testa quando mi sveglio la mattina mi sento Isabella Rossellini con una gorgiera alta 20 centimetri con in testa i sogni di Borges. Sono una grandissima sognatrice, tanto che rischio sempre di preferire il sogno rispetto alla realtà. Lo spettacolo vede tre monologhi tratti da tre autori. Il primo è ‘La sentinella’ di Fredric Brown un racconto di fantascienza cortissimo in cui si parla di diversità, di guerra e di cosa succede quando ti trovi di fronte a una persona che è uguale a te ma che tu consideri un nemico. La tematica è come ci relazionammo col diverso. Poi c’è un testo di Campanile tratto dal libro ‘Agosto moglie mia non ti conosco’, è un racconto sulla vita di un polpo. In questo caso si parla di come noi esseri umani ci relazioniamo con la natura, spesso da prevaricatori. Infine, il terzo racconto è di Maganelli, è una cronaca neutra, in cui si parla di signori e signore e delle contraddizioni degli esseri umani, uomini e donne, in maniera ironica. É la prima volta che faccio la regia, non recito. Ho voluto che fosse una produzione umana, tangibile, che non ci fosse cioè niente di troppo artefatto, ma che si potesse intravedere anche l’imperfezione. Ho costruito tre piccoli teatrini in un giardino bellissimo nel centro di Arezzo, un luogo abbandonato dove non ci va mai nessuno, con un roseto selvatico. Ho scelto tre attori che si stanno ancora formando, con una forte umanità perchè devono incarnare qualcosa di realeAndrea Fiori, Andrea Morello e Niccolò Massi. 

Cos’è per te il teatro?

Il teatro per me è il luogo dove oggi si può dire la verità. Fare teatro non è il mio mestiere, lo faccio per passione e ci tengo che rimanga questo. Il mio lavoro è fare la graphic designer, tutto quello che riguarda la performance teatrale è qualcosa che io uso per condividere una mia visione. Ma resterà sempre una cosa che io faccio senza business. Non ho mai fatto pagare per vedere un mio spettacolo, voglio che il teatro resti con questo spirito. Quando da bambina andavo con la colla ad attaccare i manifesti, quello per me è stato il primo atto performativo. L’atto di attaccare su un muro quella che per me era la verità, adesso si è evoluto nella forma, ma quel sentimento di dire e raccontare la verità è rimasto uguale dentro di me.

Qual è oggi la sfida più grande per l’essere umano secondo te?



Prendersi cura di se stessi, degli altri e del pianeta. Mi sembra che ultimamente invece di vivere stiamo ‘sopravvivendo’ e spesso lo facciamo con strategie che non vanno più bene. Dobbiamo evolverci, cambiare.

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