Cultura /"Il valore affettivo"

Bianca: il lato oscuro di una Stella. Due sorelle, un senso di colpa

“Il valore affettivo”, l’esordio letterario e sorprendente di Nicoletta Verna. Una storia che ci porta negli abissi dell’animo umano. Una bellissima donna tormentata e dominata da un piano folle alla ricerca di una redenzione

Un libro d’esordio che appare scritto da una penna già matura, straordinariamente sicura e solida, che si propone, in modo scintillante, al centro della scena letteraria italiana. Del resto, non è certo per caso che un romanzo ottenga la Menzione speciale della Giuria al “Premio Calvino 2020” o venga accolto da lettori e addetti ai lavori con un apprezzamento che cresce giorno per giorno.
“Il valore affettivo” (Einaudi – Stile Libero Big), opera prima di Nicoletta Verna (“Sono frastornata dall’accoglienza positiva ricevuta e inaspettata. E dalla vicinanza delle persone”), forlivese di nascita e fiorentina di adozione, è un grande racconto familiare, psicologico, simbolico, profondo, costruito con naturale sapienza narrativa.
Due bambine, due sorelle, un lutto non elaborato, uno sguardo spesso sprezzante e ironico sulla società contemporanea e un disegno folle di un giovane donna, la protagonista: Bianca. Una controversa figura femminile, bellissima con l’unica imperfezione estetica di un inciviso spezzato, divorata da un terribile senso di colpa per aver perso il suo alter egoStella – e spinta dalla ricerca spasmodica di una redenzione. Tra presente e passato, tra una vita luccicante da alta borghesia romana e le radici immerse nel cuore di una provincia del nord, il lettore viene accompagnato in un viaggio, a tratti claustrofobico, negli abissi della fragilità umana.
La scrittura scorre fluida, tra piani temporali differenti e non lineari, in cui il presente scivola su continui richiami del passato, con una mano che tesse una fitta trama psicologica in cui i protagonisti sono ingabbiati in un avvincente intreccio di ricordi, sogni, segreti e grumi emotivi irrisolti.

Nicoletta, il romanzo affronta molteplici temi ad alta complessità psicologica: il rapporto tra figli e genitori, la crisi di coppia, la malattia mentale, la solitudine nel dolore. Ma soprattutto la storia è pervasa da un sentimento: il senso di colpa. Perché?

Io sono portata a guardare sempre nelle situazioni, anche in quelle ininfluenti della dimensione personale, alla mia responsabilità perfino laddove è minimale o inesistente. E ho riscontrato quanto sia comune tra la gente colpevolizzarsi. Una delle morali del romanzo è proprio questa: seppur sia un sentimento nobilissimo, spesso il senso di colpa è inutile, consuma, ci avvelena l’esistenza con un potere deflagrante enorme. È uno dei motori dell’animo umano, può distruggere la razionalità e tutto il resto delle percezioni. Tra i tanti episodi che ho vissuto, uno mi ha ispirato e mi è rimasto dentro: 30 anni fa, quando ero molto giovane, la morte di un ragazzo a cui l’amico aveva prestato la propria moto. In quella scelta si sono giocate due vite e subito ho pensato a come si sarebbe sentito per sempre, per tutta la sua esistenza, quel ragazzo costretto in un solo attimo a decidere se concedere o meno quel giro in moto poi, purtroppo, rivelatosi suo malgrado fatale.

Un romanzo che ti lacera il cuore con sapiente chirurgia narrativa, strutturato lucidamente per condurti negli abissi dell’animo umano tra le architetture più fragili del nostro sentire.

Parliamo delle due figure dominanti del romanzo, le due sorelle: Bianca e Stella. Da una parte l’ossimoro nominale di una donna che nasconde la propria oscurità interiore e mostra di sé soltanto una immagine priva di colori tutta da decifrare con un sorriso patinato da ex soubrette televisiva; dall’altra un nome luminoso che continua a brillare nel ricordo e nell’influsso benefico che ha sempre impresso sulla propria famiglia.

Sono due nomi molto belli e rappresentano due polarità, tipiche del rapporto stretto tra sorelle. Da una parte l’amore, il modello a cui ispirarsi; dall’altra la rivalità. E la narrazione si gioca tutto su questo equilibrio instabile. Stella è sole, ha illuminato la sua famiglia tanto da lasciarla poi al buio dopo la morte, con genitori, la madre in particolare, incapaci di elaborare il lutto. Bianca, invece, riflette la luce, non emana solarità. È una donna anaffettiva.

La storia è ambientata soprattutto a Roma. Alta borghesia, attico ben arredato con vista Colosseo. Un compagno di successo per Bianca, Carlo, cardiochirurgo di fama internazionale. Un mondo sfavillante, anche di lusso, sorrentiniano, da “grande bellezza”.

La capitale non è mai neutra come posto, diventa anch’essa protagonista. L’ho scelta perché è una metafora di Bianca, una città splendida, profonda per il suo passato glorioso ma anche decadente. Carlo, intelligente, affascinante, ricco e amante delle belle cose, per la sua professione, è l’uomo potenzialmente perfetto che estirpa le macchie (del cuore), crede nel futuro, ridona la vita. Diventa a sua insaputa strumento per il piano folle di Bianca. Ma anche lui è tutt’altro che lucente. Solo Stella è senza colpe, forse perché non ha avuto tempo.

Il romanzo, come abbiamo detto, scandaglia minuziosamente i tratti psicologici dei personaggi. Bianca è vittima di una fobia ossessiva, compulsiva che cresce di riga in riga. Raccoglie e cataloga senza tregua oggetti e rifiuti, archivia mentalmente perdite ed emozioni. Perché proprio questa scelta narrativa?

Bianca è un personaggio tecnicamente disfunzionale. Inizialmente avevo pensato alla mania per l’igiene che però caratterizza soprattutto chi ha paura dei batteri, delle malattie e della morte. Ma lei non ha paura di morire. Lei è ossessionata dal perdere gli affetti e, quindi, raccogliere i rifiuti per differenziarli è una grande metafora della perdita. In modo illusorio, pensa di poter controllare così la sua vita, tenerla in ordine. Un disturbo che è anche fondamentale nella stessa costruzione dell’intreccio, con immagini estremamente scenografiche. E del resto, espellere i rifiuti, inquinando il pianeta, non è forse il senso di colpa dell’uomo contemporaneo?

Sullo sfondo non si staglia la morte, innominabile, ma la “disgrazia” – quella disgrazia – evocata dalla voce narrante e robotica di una giovane donna impreparata ad elaborare il lutto, sola anche in compagnia, incapace di trovare la misura empatica del valore affettivo, dilaniata dalla perdita e dominata da un disegno folle di redenzione, di riscatto e, forse, di nuova felicità.

Cito due passaggi del libro che mi hanno colpito in modo particolare: l’uccisione del maiale nel casolare degli amici di Carlo e la cena con altri due personaggi antitetici, Liliana e Rodolfo. Sono due snodi narrativi cruciali, sbaglio?

Non sbagli. Nel romanzo volevo esaltare la contrapposizione tra una dimensione moderna, hi-tech – la chirurgia robotica, i focus group, le app, il controllo medico sulle vite – con una dimensione ancestrale, contadina, di morte e festa insieme. Un fatto cruento che racconta anche di più di Carlo. La cena, di contro, è un momento cruciale perché i personaggi calano le carte e realtà fino ad allora parallele si incontrano. Liliana è crudele, un elemento di disturbo, è caratterialmente agli antipodi di Bianca , per via del suo handicap si sente in credito con il mondo e non certo in colpa.

Perché “Il Valore Affettivo”?

Anche questo è un ossimoro, un titolo “antifrastico” perché indica il contrario: l’affetto non dovrebbe avere una misura, un valore appunto. Un titolo che stride con la natura anaffettiva di Bianca e che lancia una critica presente in tutto il libro al materialismo , al consumismo e al legame emotivo, malato, che possiamo avere con gli oggetti.

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Un romanzo che ti lacera il cuore con sapiente chirurgia narrativa, strutturato lucidamente per condurti negli abissi dell’animo umano tra le architetture più fragili del nostro sentire.
Raccontare con potenza e fluidità di scrittura una storia, non è dote comune. Saperla impreziosire scolpendola nella materia psicologica di personaggi che alla fine ti sembreranno familiari e che si lasceranno guardare nella loro più oscura natura, è un dono ulteriore che non può non essere colto.
E coglierlo vuol dire seguire lo scorrere tortuoso di un sentimento a cui tutti noi almeno una volta nella vita siamo costretti: il senso di colpa, quello che prova Bianca per la morte della amatissima sorella, Stella. Un grumo emotivo irrisolto attorno al quale si dipanano esistenze martoriate da emozioni, segreti e ricordi; famiglie diversamente infelici, fobie compulsive, rifiuti materiali e immateriali da catalogare, desideri contorti di coppia uniti alla ricerca di una verità che avrà soltanto alla fine tutto il sapore di una epifania.
Sullo sfondo non si staglia la morte, innominabile, ma la “disgrazia” – quella disgrazia – evocata dalla voce narrante e robotica di una giovane donna impreparata ad elaborare il lutto, sola anche in compagnia, incapace di trovare la misura empatica del valore affettivo, dilaniata dalla perdita e dominata da un disegno folle di redenzione, di riscatto e, forse, di nuova felicità.
Felicità, appunto. Quella che tutti vorrebbero, che l’autrice ci mostra lontana, spesso legata al passato, idealizzata, inafferrabile, indecifrabile. Consapevoli con Bianca che “è questa la cosa stupida della felicità: che la riconosci solo quando è finita”.

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