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La città dei vivi: quando la letteratura getta una luce nell’abisso

Il libro appena uscito per Einaudi di Nicola Lagioia ricostruisce l’omicidio efferato di Luca Varani, che nel 2016 sconvolse Roma e tutta l’Italia

La notte tra il 4 e il 5 marzo del 2016 a Roma, in un appartamento di via Giordani, Manuel Foffo e Marco Prato, due ragazzi di buone famiglie borghesi, torturano e seviziano per ore Luca Varani, che muore a soli 23 anni. Un delitto efferatissimo, spaventoso perché coinvolge persone insospettabili e che non avevano alcun motivo per massacrare un loro coetaneo, che si ritrova al momento sbagliato nella casa dove i due assassini, imbottiti di cocaina e alcol, lo portano con loro nell’inferno delle loro fantasie private.
Prova a scandagliare questo abisso “La città dei vivi”, il nuovo libro che Nicola Lagioia dedica proprio al delitto Varani: quattro anni di indagini, ricostruzioni e interviste che lo scrittore condensa in un’opera densa, corale, che getta una luce non solo su questo omicidio ma anche su Roma, su una generazione in difficoltà esistenziale, su questo complicato decennio.
Lagioia oggi presenterà il suo libro a Firenze nell’ambito di Intemporanea Festival: l’appuntamento è al cinema La Compagnia alle 17.30 e l’incontro sarà trasmesso in streaming su PiùCompagnia e sulla pagina Facebook del cinema.

Nicola, hai seguito il delitto Varani come cronista per Il Venerdì ma poi la vicenda ti ha risucchiato fino a lavorarci per quattro anni e scriverci un libro, come mai?

Il caso mi aveva colpito sin dall’inizio, prima ancora che Il Venerdì mi chiedesse di scriverne, per diversi motivi. Si trattava di un delitto efferato, una violenza quasi da zona di guerra dove il diritto è sospeso, poi c’era la mancanza di movente e il fatto che Foffo e Prato fossero considerati fino al giorno prima ragazzi normali, come ne conosciamo tanti, dei quali non sospetteremo mai che possano diventare assassini. Neanche loro l’avrebbero mai sospettato, questo è interessante e anche agghiacciante, se una settimana prima gli avessero detto tra sette giorni vi troverete in galera per aver torturato a morte un ragazzo di 23 anni che neanche conoscete – Foffo quando confessa l’omicidio al padre neanche sa il nome di Varani – avrebbero pensato a un film di fantascienza.
Sono due assassini che faticano ad attribuirsi la responsabilità di ciò che pure sono consapevoli di aver fatto. In loro i sistemi di libero arbitrio, assunzione di responsabilità, definizione della colpa – che sono tra i pilastri nella costruzione dell’uomo moderno – sono saltati, faticano a interiorizzare ciò che sanno di aver fatto, questo non toglie nulla alla loro responsabilità e colpa ma sembrano quasi degli assassini a loro insaputa.
Qualcuno, quando il caso era esploso, aveva trovato analogie con il massacro del Circeo, non fosse che per le diverse classi sociali coinvolte, ma mentre Izzo, Ghira e gli altri massacratori del Circeo erano determinati nel compimento dell’azione malvagia, Prato e Foffo parlano come se fossero agiti da forze superiori che li hanno costretti a fare quello che hanno fatto.

Molti scrittori a un certo punto si sono confrontati con fatti di cronaca, Carrère e Capote sono i più noti ma c’è anche il Murakami di Underground sull’attentato al serin nella metro di Tokyo, in Italia catastròfa di Paolo Di Stefano sul disastro di Marcinelle e tantissimi altri. Cosa significa mettere la letteratura a servizio della realtà?

In Italia c’è una lunga tradizione da questo punto di vista, basti pensare a “Se questo è un uomo” di Primo Levi o a “La pelle” di Malaparte, ma anche ad Alessandro Leogrande a cui il libro è dedicato insieme a Fabio Menga, sono due compagni di vita che ho perso mentre lo scrivevo.
La letteratura prova ad assediare la realtà per illuminarne una parte che altrimenti sarebbe rimasta in ombra, è il contrario di un tribunale perché non deve giudicare ma comprendere, capire, esplorare, andare a fondo. La letteratura non impedisce che il disastro avvenga e non necessariamente aggiusta e ripara il danno ma ha la capacità di farci riconoscere tutti gli uni con gli altri come esseri umani, nonostante i veri disastri di specie che lasciamo dietro il nostro cammino per essere fatti come siamo fatti: siamo dei legni storti, la letteratura non vuole raddrizzarli ma li vuole raccontare e attraverso il racconto esercitare un potere trasformativo e addirittura catartico.

L’omicidio di Luca Varani è strano: più ci si avvicina a quella notte, più dettagli si aggiungono, e il quadro invece di diventare più chiaro si sfuoca. Il gesto di Foffo e Prato sembra non avere spiegazione, non è quindi ancora più spaventoso che se fosse stato un atto volontario?

È più spaventoso perché è come se in loro scattasse una cura Ludovico al contrario. In “Arancia Meccanica” Alex viene sottoposto alla cura Ludovico e diventa più mostruoso ancora perché non potendo più commettere atti malvagi gli viene estirpato il libero arbitrio, anche Foffo e Prato si raccontano e si auto rappresentano quasi privi di libero arbitrio (anche se secondo me ce l’hanno eccome) e quindi sono speculari ad Alex, che può solo fare del bene, loro possono fare solo del male.

 

La città dei vivi di Nicola Lagioia
La città dei vivi di Nicola Lagioia

 

Foffo e Prato sono due personalità complicate che probabilmente non avrebbero mai ucciso se non si fossero incontrate, ma l’innesco tra i due è sicuramente la cocaina, che dissocia e aumenta l’aggressività di chi la assume, non pensi ci sia troppa tolleranza sociale su questa droga?

La cocaina sicuramente svolge un ruolo importante ma non unico. La cocaina è stata la benzina sul fuoco della violenza ma se bastasse imbottirsi di cocaina per uccidere a Roma, Firenze o Milano avremo 20mila morti ammazzati al giorno tenendo conto della quantità che ne circola. È una droga terrificante ma più che troppa tolleranza io credo ci sia poca informazione, i pericoli della cocaina devono essere oggetto di informazione e non di semplice proibizione, altrimenti non riesci a debellarla o a ridurne il consumo, purtroppo sulle droghe c’è una totale disinformazione che va di pari passo alla repressione.

Emerge dal tuo libro anche il tema della differenza di classe, di questa Roma ancora divisa fortemente tra borghesia e sottoproletariato, Foffo e Prato vengono da famiglie ricche, Varani invece è figlio di due venditori ambulanti e si prostituiva, pensi che questo abbia influito nella scelta della vittima o quella notte fu solo una macabra lotteria del caso?

Non so se abbia influito sulla scelta della vittima, probabilmente no. Varani era solo la persona più ingenua, più disarmata, tra quelle che avevano convocato lì, anche fisicamente era magrolino rispetto ad Alex Tiburtina, che è un ex pugile con una certa esperienza di vita che gli fa capire subito che c’è puzza di bruciato e lo fa andare via. Luca Varani da questo punto di vista era più ingenuo.
Roma poi è anche una città in cui le differenze di classe spesso si superano, non dal punto di vista economico ma è vero che a Roma tutti trovano il modo di incontrare tutti se vogliono, pensiamo a “La dolce vita” di Fellini dove uscendo con un po’ di spirito di avventura nella notte Marcello si ritrova in una borgata e in un palazzo nobiliare. C’è una vera permeabilità tra classi sociali a Roma e questo è molto affascinante, ci sono città invece chiuse in caste impenetrabili in cui è meno possibile fare esperienze rispetto a Roma, che ha dei luoghi oscuri ma anche delle parti estremamente vitali e le due cose marciano in maniera bizzarra di pari passo.

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