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Steve Jobs, dal fallimento di Next ad Apple passando per Firenze

Mario Mancini, ingegnere toscano coinvolto nello sviluppo di Next, ci racconta i rapporti del grande informatico con la città gigliata e con l’Italia

È il 1985 quando Steve Jobs viene licenziato dalla Apple. Decide allora di far partire un progetto innovativo e lungimirante, la Next Computers, con l’obiettivo di creare una work station di nuova generazione. Ne nascono macchine avanzatissime, forse troppo per il mercato dell’epoca, tanto che la chiusura si fa sempre più vicina. Anche Apple è in sofferenza, le rimangono solo pochi mesi di liquidità. La disfatta è a due passi, ma Jobs, con il suo gruppo di lavoro, viene richiamato dalla sua vecchia azienda. Due sfiorati fallimenti, che, combinati, hanno fatto la storia dell’informatica. E in questa storia anche Firenze ha la sua parte. Mario Mancini, che sarà alla FuckUp Night di giovedì 2 maggio a Impact Hub Firenze, ci racconta in che modo.

Mario, quali erano gli obiettivi di un progetto come quello di Next?
«Jobs ebbe l’occasione di visitare un centro di ricerca alla Mellon University e qui vide che i ricercatori avevano bisogno di un sistema efficiente per le loro attività. Ecco che iniziò a pensare a una workstation rivolta proprio al mondo dell’università. I progettisti del suo team ci lavorarono per tre anni, creando un sistema integrato di hardware, software e contenuti. Si trattava di una macchina molto avanti, che anticipava il mercato di quasi 15 anni: basti pensare che aveva un’interfaccia grafica a icone, era multitasking e conteneva tutte le opere di Shakespeare e i dizionari della Oxford»

Che c’entra Next con l’Italia?
«La società in cui operavo a Firenze, la Thèsis, fu una delle quattro che Jobs selezionò in Italia. Rispondemmo a una call della Next e ben presto ci rispose Jobs stesso, con un fax che conservo ancora. C’è da dire che lui aveva anche un particolare attaccamento all’Italia e in particolare era forte il legame con Firenze, dove aveva conosciuto anche la moglie. Tante delle sue presentazioni, delle sue creazioni contengono riferimenti a geni come Leonardo o al Rinascimento, momento che considerava come l’apice dell’esperienza umana. Se si osserva la pavimentazione degli Apple Store, in Italia come all’estero, si noterà una particolarità: ovunque è stata utilizzata la pietra serena, che Jobs vide proprio a Firenze. Quasi come buon auspicio, pensò che se tale materiale era riuscito a sopravvivere a tanti secoli in quella città, così sarebbe accaduto per i suoi negozi»La lettera di Steve Jobs a Thesis

Nonostante la tecnologia, qualcosa di Next andò storto. Cosa?
«Quando la macchina uscì sul mercato, la stampa e gli operatori erano entusiasti, ma il costo del dispositivo, di circa 14’000 euro attuali, era altissimo e neppure le università riuscivano a sostenerlo. Inoltre, non supportava software di terze parti e gli investimenti fatti su altre macchine si rivelavano così inutili. Era una macchina avanzata che però non interloquiva con le altre. Insomma, a tre anni dal lancio, nel ’92, la produzione venne sospesa»

Quello di Next viene però definito uno dei fallimenti più riusciti. Perché?
«Da quel momento decisero di concentrarsi esclusivamente sulla parte software e lì accadde il miracolo: il sistema operativo venne applicato alle maggiori workstation dell’epoca e i programmi sviluppati da Next iniziarono a essere applicati su altri dispositivi. Amazon, per esempio, ha costruito il suo primo negozio online con un framework di Next e poi la Apple, ovviamente, che ha trasformato tutto questo patrimonio di software in cose come il mac OS X o l’iPhone. È Next che ha reso la Apple quello che è oggi, sono stati sì anni di fallimento commerciale, ma anche anni di grandissima semina»

Next e la Apple ne hanno guadagnato, ma la vostra società? Accusare il colpo non deve essere stata una passeggiata.
«Noi facemmo davvero un grosso investimento, ben 50 milioni delle vecchie lire. Si trattava di un investimento che la stessa Next richiedeva: prendemmo con noi sviluppatori, sistemisti, ma subito notammo le difficoltà, le vendite erano poche e lo sviluppo complicato. Eravamo preparati, consci che la situazione non poteva durare a lungo. Questo investimento ce lo siamo però ritrovati, con un know-how acquisito e che poi abbiamo potuto spendere nel nostro lavoro. Questa collaborazione ha determinato le nostre capacità successive, un fallimento virtuoso, si potrebbe dire»

La Toscana mantiene ancora il legame con Jobs: oggi alcuni pezzi di Next sono stati donati da Thèsis al Museo degli Strumenti del Calcolo di Pisa, giusto?
«Quando Next chiuse tutto, noi avevamo delle macchine in magazzino di un valore economico non indifferente. Scrivemmo a Jobs per sapere cosa farne e lui mandò in Italia un suo collaboratore per sistemare la situazione: i soldi ci furono restituiti, ma le macchine rimasero a noi. Per non disperdere questo patrimonio, abbiamo deciso di donarle al museo di Pisa, che ora espone i tre modelli realizzati: il NextCubo, la Next station in bianco nero e quella a colori. Oltre a questi, ci sono anche varie periferiche come le stampanti, ma anche tanta documentazione tecnica e materiale pubblicitario, per un totale di circa 400 pezzi»I computer donati da Thesis al museo degli strumenti di calcolo

Tutta l’esperienza di Mario Mancini con Next è anche in un libro, Gli anni di Next. Tributo a Jobs. La sua storia sarà raccontata a Impact Hub il 2 maggio dalle 19:30. Per partecipare, è sufficiente un’iscrizione gratuita qui.

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