Bio, ma non troppo. E' quello che rivela lo studio di un team di biologi dell'Università di Pisa che ha analizzato gli effetti - diretti o indiretti - dell'immissione nell'ambiente delle nuove buste in bioplastica.
Bene, secondo la ricerca (pubblicata sulla rivista "Science of the Totel Environment"), ci vogliono più di sei mesi per consentire al mare di “smaltire” le cosiddette le buste ecologiche di nuova generazione, senza dimenticare poi che la plastica biodegradabile di cui sono composte può comunque alterare lo sviluppo delle piante e modificare alcune importanti variabili del sedimento marino come ad esempio ossigeno, temperatura e pH.
“La nostra ricerca si inserisce nel dibattito sul “marine plastic debris”, cioè sui detriti di plastica in mare, un tema globale purtroppo molto attuale – spiega il professor Claudio Lardicci dell’Ateneo pisano – quello che abbiamo potuto verificare è che anche le buste biodegradabili di nuova generazione attualmente in commercio hanno comunque tempi di degradazione lunghi, superiori ai sei mesi”.
Come specie modello i ricercatori hanno selezionato due piante acquatiche tipiche del Mediterraneo, la Cymodocea nodosa e la Zostera noltei, valutando quindi la loro risposta a livello di singola specie e di comunità rispetto alla presenza nel sedimento di della bioplatica compostabile. Lo studio ha quindi esaminato il tasso degradazione delle buste e alcune variabili chimico/fisiche del sedimento che influenzano lo sviluppo delle piante.
“Ad oggi la nostra ricerca è l’unica ad aver valutato i possibili effetti della presenza di bioplastiche sui fondali marini e sulla crescita di organismi vegetali superiori – ha chiosato Lardicci – i rischi di una possibile massiccia immissione di plastiche cosiddette “biodegradabili” nei sedimenti marini e gli effetti diretti e indiretti del processo di degradazione sull’intero habitat sono aspetti in gran parte ignorati dall’opinione pubblica e non ancora adeguatamente indagati dalla letteratura scientifica”.