Profondo, cosmopolita, anticonformista Moni Ovadia è stato protagonista con il suo spettacolo: "Oltre i confini – ebrei e zingari -", al Festival delle Ombre tenutosi alla rocca di Staggia Senese alle porte di Poggibonsi.
Con canzoni e musiche appartenenti alla cultura Klezmer e a quella dei rom, l’artista ha ribadito la sua vicinanza a questo popolo affrontando temi come la globalizzazione, l’eterno ebreo, il viaggio di conoscenza, la cultura, lo straniero, l’antisemitismo.
Ovadia, quale rapporto vede fra gli ebrei della diaspora e i rom?
Il loro destino comune è stato quello di essere degli esuli, dei senza terra, di condividere un destino comune: un progetto di sterminio. Hanno dimostrato di non aver bisogno né di territori né di fili spinati e hanno proposto all’Europa una visione del mondo: quella di essere popoli privi di confini, oltre i confini.
Lei, artista impegnato socialmente, come considera la nostra società che tende all’omologazione e all’appiattimento della personalità del singolo individuo?
Penso che tanto più questo mondo si omologa e cerca di cancellare la capacità di sognare, tanto più occorre farlo. Le minoranze sono il propellente alla trasformazione della società, sono la rottura delle logiche di potere, che è in mano ad un delirio finanziario che pretende di imporre il senso del consumo e della competizione insensata.
Quale obiettivo si prefigge nel recupero delle tradizioni ebraiche e non solo, con la sua musica e il suo teatro?
Insieme ad altri e altre, suono per cercare di svegliare le coscienze; dare il mio contributo per ritornare non solo alla centralità dell’uomo, della vita, della natura, del pianeta, ma anche degli animali.
Cosa ne pensa dei media?
Il problema è la cultura che tu hai per usarli. Internet può essere sia il luogo della farneticazione, dello sproloquio, ma può essere anche un mezzo straordinario, capace di farci accedere ad una democrazia diretta, a discussioni in tempo reale.
In questa società multietnica e multiculturale, la differenza di credi e usanze diverse potrebbero essere il segreto di una convivenza liberale e democratica? Un’apertura ad un dialogo interculturale?
Assolutamente sì. Il problema sono i fanatici non sono le religioni. La verità assoluta, se c’è, appartiene solo a Dio. Noi uomini abbiamo solo opinioni e quando facciamo un confronto d’opinioni lo facciamo anche in modo vigoroso. Ma queste magnifiche lotte di pensiero, non dovrebbero mai trasformarsi in violenza.
La condizione umana, sociale e psicologica dell’ebreo nei secoli è la condizione dell’eterno ebreo. Ritiene che ciò sia peculiare al popolo ebraico o rappresenti molto di più “una condizione dell’anima umana”?
Gli ebrei hanno interpretato in modo straordinario l’esilio, il senso del cammino, il fatto che la vita sia un viaggio. Costantino Kavafis, nella poesia “Itaca” interpreta il senso della vita, dicendo che essa è “la tensione verso”, perché la vita dev’essere una rimessa in gioco continua e non un luogo statico e chiuso.
Perché lo straniero tanto più siamo in una condizione di disagio economico, sociale, di perdita di valori umani, tanto più fa paura?
La psicanalista e psichiatra Selon Julia Kristeva nel suo libro “Etranger à nous mêmes” asserisce che abbiamo paura dello straniero, perché abbiamo paura dello straniero che è dentro di noi. Siamo terrorizzati da quella parte anticonformista che si trova in ciascuno di noi. Per questo lo odiamo, perché è un termine di confronto.
Quale ruolo riveste la cultura in questa società?
La formazione è la cosa a cui la nostra società dovrebbe dedicare le maggiori energie. Nell’agenda dei politici, se fossimo una grande civiltà, dovrebbero esserci: il sociale, la cultura, l’educazione, la ricerca. Tutto il resto può venire dopo, economia compresa.
Ovadia, come concilia il suo gnosticismo con la profonda conoscenza che ha del Talmud e della Kabbalah?
L’Ebraismo non ha dogmi e credere in Dio non è un dogma. L’intuizione degli ebrei è di avere colonizzato tutto il cielo con un Dio, il Dio dello schiavo, un Dio universale che a sua volta sceglie come suo popolo, un popolo di schiavi, meticci, stranieri e poco raccomandabili. Il problema dell’Ebraismo non è che uomo creda o non creda in Dio, ma che l’uomo creda nell’uomo, che è un’impresa assai più difficile.
L’humor ebraico e gli stereotipi fisici dell’ “ebreo tipo” caratterizzanti i suoi personaggi sono un’arma che si è rilevata vincente nel suo lavoro. Come è giunto a questo risultato?
Ho imparato tutto dal mondo della Yiddishkeit, da quell’ebraismo povero, diasporico, perseguitato, ed ha prodotto una qualità umana che non avremmo mai più. L’humor ebraico è una grande arma di costruzione di dignità, uno smascheramento delle violenze.
Come spiega l’antisemitismo?
Noi ebrei siamo stati degli anti idolatri nel mondo dell’idolatria. La prima grande rivoluzione è stata l’uscita dall’Egitto. Un popolo di schiavi e di meticci, manda a gambe e quarantotto il più grande potere. Come? Con un rapporto teoria-pratica che nei secoli avvenire non è stato più uguagliato. Gli idolatri di tutto il mondo, che sono l’assoluta grande maggioranza, come potevano non odiarci?