Cultura/ARTICOLO

La Toscana abbraccia i TavianiAll'Odeon con Cesare deve morire

I registi hanno salutato il pubblico della Casa del cinema Odeon Firenze, in occasione dell’uscita del film nelle sale, Orso d'Oro al Festival di Berlino

/ Elisabetta Vagaggini
Mar 10 Dicembre, 2013
TAVIANI
Due fratelli inseparabili, i Taviani, nella vita come nel cinema, che li vede protagonisti dalla fine degli anni ‘60, da quando realizzarono il film “I Sovversivi”, al quale partecipò come attore un giovane cantante dal nome Lucio Dalla. Sono stati tanti i film cult che Paolo e Vittorio Taviani hanno regalato al pubblico: “Padre padrone”, “La notte di San Lorenzo”, “Kaos”, “Good morning Babilonia”, “La masseria delle allodole” e adesso il loro ultimo film “Cesare deve morire”, che gli ottuagenari ma sempre innovativi registi hanno presentato alla 62esima edizione del Festival di Berlino, dove si è aggiudicato l’Orso d’Oro. Venerdì 2 marzo i registi hanno salutato il pubblico della Casa del cinema Odeon Firenze, in occasione dell’uscita del film nelle sale.

“Cesare deve morire” racconta i laboratori teatrali all’interno del carcere di Rebibbia, condotti dal regista Fabio Cavalli. “Il giorno in cui entrammo nel carcere, invitati da una nostra cara amica – hanno raccontato i registi - all’oscurità di una vita prigioniera si contrapponeva l’energia di un evento culturale, poetico. Sul loro palcoscenico i detenuti recitavano l’Inferno di Dante, confrontandolo con loro inferno”. I detenuti sono quelli della sezione “Alta sicurezza”, per molti dei quali la condanna è “fine pena mai”. Da quello spettacolo nasce la scintilla e l’idea dei Taviani di realizzare un film sul “Giulio Cesare” di Shakespeare.

Il film, in buona parte in bianco e nero, racconta sia la messa in scena sul palco del teatro del carcere della tragedia shakespeariana, sia la teatralizzazione della stessa nei corridoi, nelle celle, nei cortili recintati dell’istituto di detenzione, dove il testo si carica di significati profondi e forti. La spontaneità degli interpreti ci riporta al neorealismo di Rossellini e De Sica. Le vite e i dialetti dei detenuti si fondono con quelle dei personaggi inventati dalla penna di Shakespeare esprimendo una forte tragicità.
La storia è quella universalmente conosciuta dei congiurati Bruto, Cassio, Decimo e gli altri, che decidono di uccidere alle idi di marzo Giulio Cesare, diventato ormai un tiranno per il popolo romano. Il tema è dunque quello della ribellione contro la tirannia e la parola libertà, gridata dai detenuti/attori nel film, è un grido di estremo realismo che tocca lo spettatore fino alla commozione.

“Parlando con le guardie carcerarie – raccontano ancora i registi – abbiamo imparato ad avere compassione per questi uomini condannati alla reclusione senza fine, ma abbiamo anche capito che bisogna ricordarsi di coloro che questi uomini hanno ucciso e che non ci sono più a causa di atti delinquenziali di estrema violenza”.

Conclusioni più che giuste. Fatto sta che guardando il film questi esseri umani appaiono sotto un’altra luce e viene da pensare che se ci fosse stato un laboratorio di teatro, una scuola, una famiglia e una società che li avessero guidati per tempo e salvati dal proprio destino, forse oggi non sarebbero lì dentro, stesi su una brandina per interminabili ore, a guardare il soffitto, a ripensare ad un passato pieno di errori e ad un presente senza futuro.

“Da quando ho conosciuto l’arte – afferma il detenuto/Cassio – 'sta cella è diventata una prigione”: E' il culmine della tragicità, del dolore palpabile che il film trasmette, per la scommessa persa dalla società verso questi uomini, su ciò che essi avrebbero potuto essere e che ormai non saranno più.


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