Da sempre le Apuane hanno stregato schiere di artisti e scrittori, affascinati dalla quattro cuspidi bianche che si stagliano sulla costa nord occidentale della Toscana e che testimoniano le gesta dei grandi scultori del passato. Per chi si avventura su queste alture è impossibile non pensare al grande Michelangelo che qui sostò per dirigere il lavoro dei cavatori, oppure immaginare i marmi della Roma imperiale, quasi tutti provenienti dall’antico porto di Luni. In epoche recenti, anche quando la produzione di marmo aveva ormai assunto un carattere industriale, queste montagne non smisero di attrarre l’attenzione degli intellettuali. Corrado Alvaro, scrittore, poeta e giornalista di origine calabrese, che diventerà celebre con il libro Gente d’Aspromonte, scrisse pagine molto interessanti sulle Apuane, fotografando questa realtà negli anni Trenta del Novecento, un periodo di grande espansione dell’industria marmifera. Negli articoli di Alvaro emerge soprattutto il lavoro dei cavatori e dei lizzatori, che ancora in questo periodo conservava un forte legame con le tradizioni del passato: “(...) la cava di marmo – dice lo scrittore – è un fatto personale, come l’arte e l’artigianato. Il cavatore conosce la sua cava come la sua casa, distingue il suo pezzo di marmo tra mille: perché da palmo a palmo la montagna è diversa e il minerale assume diverse configurazioni.” Alvaro ritorna più volte su questo concetto sottolineando la grande perizia dei cavatori apuani abituati a capire il marmo, come i contadini capiscono la terra: “raramente accade di ammirare tanto l’uomo come in questo rapporto con la pietra. Dal colore d’una superficie indovina quello che c’è sotto, dalla direzione delle fenditure dal masso intuisce il metodo di cavarlo; perché raramente egli ricorre alle grosse mine, e solo quando si ripromette la scoperta d’un banco considerevole; altrimenti egli sa che il marmo si cava pazientemente.” Al lavoro dei cavatori si affianca quello dei lizzatori, i cui sforzi per trasportare i grandi blocchi a valle, hanno in sé qualcosa di epico, un rituale senza tempo che rimanda al lavoro e alle fatiche della gente di mare. “Era l’alba, vedevo scendere una carica di blocchi per la lizza ripidissima. Il masso, d’una ventina di tonnellate, legato e fornito sotto di alcune assi, scivolava lentamente su altre assi insaponate come i falanghi (tavole spalmate di cera per facilitare lo scorrere delle barche durante il varo e l’alaggio) su cui si mettono in secco le barche. I lizzatori, stavano intorno al carico badando a togliere di dietro le assi a mano a mano che il blocco avanzava. Il capo lizza stava , piccolo davanti al masso pauroso, al posto più rischioso. Il carico, perché non precipitasse per la china, era trattenuto da corde d’acciaio che un uomo mollava gradatamente dall’alto, srotolandole da un gruppo di pali infissi ad un blocco di cemento.” A dispetto del lavoro e della fatica, le condizioni degli operai del marmo erano molto misere e ricordavano probabilmente ad Alvaro le condizioni dei montanari della Sila: “Ho veduto le giacche appese dei cavatori, vecchie giacche di velluto consunto, che non hanno più nulla del tessuto, vere spoglie del tempo e della fatica. Ho veduto il loro pane e il companatico, e come solitari si appartano a consumare la loro colazione, e come tagliano la pagnotta, quasi ancora lottando. Il ragazzo passa di quando in quando con la cassetta degli scalpelli, che dopo un poco si rompono o scottano nel pugno. Il fabbro li ritempra. Il ragazzo li arrota sulla pietra dura. Gli operai guardano il loro blocco, prima di lavarlo, come un medico guarda un malato. Ricomincia la musica degli scalpelli, il lamento del filo elicoidale, i soprassalti della montagna ai colpi di mina e alle scariche. Di lassù si vede il mare.”
Cultura/ARTICOLO
Le Apaune di Corrado Alvaro
Una grande scrittore calabrase e la vita alle cave alla negli anni Trenta
