Siamo stati al Castello di Sammezzano in occasione dell’ultima visita organizzata da Massimo Sottani, volenteroso promotore del comitato per la salvaguardia del palazzo, prima dell’asta prevista per il 20 ottobre. La visita ci ha portato all’interno del sogno architettonico del marchese Ferdinando Panciatichi Ximenez, che tra il 1853 e il 1898 ha dato fondo alle sue ingenti sostanze per ricreare, a Reggello, uno stupefacente caleidoscopio di suggestioni orientali.
Sorprendente, oltre all’effetto degli ambienti, è la cura dei dettagli con i quali Ferdinando ha voluto dar vita – rigenerando dall’interno la struttura di una grande magione seicentesca – ai diversi ambienti cui si è ispirato. Piante ottagonali, ascendenze mudejar, aule da pranzo dal gusto tipicamente moghul, fumoir marocchini, una cappella all’italiana (falsamente) innestata nel simulacro di un mihrab; varcando ciascuna soglia si accede nel cuore di un’epoca, di un luogo e di uno stile perfettamente ricreati in prima persona dallo stesso Ferdinando Panciatichi, architetto autodidatta che aveva respirato solo sui libri le atmosfere che andava disegnando.
Usando esclusivamente maestranze locali (la fornace per le maioliche di ceramica, ampiamente utilizzate nell’architettura moresca, era sistemata nel parco attorno al palazzo) il castello è cresciuto anno dopo anno, di pari passo con l’isolamento del marchese, che dopo essere stato due volte senatore nella Firenze capitale d’Italia decise definitivamente di allontanarsi da una città che dimostrava di odiarlo deridendo il suo culto per l’arte orientale.
Non a caso le stanze del castello sono seminate di messaggi – e di rebus – che testimoniano fedelmente l’isolamento e la delusione dell’incompreso proprietario: Nos Contra Todos, Todos Contra Nos; Sempre l’uom non volgare o infame / O scavalcato o inutile si spense. Altri alludono alla condizione nazionale e letti al giorno d’oggi assumono un valore profetico: Mi vergogno a dirlo, esattori prostitute ladri e sensali tengono in pugno l’Italia, ma non di questo mi dolgo bensì del fatto che ce lo siamo meritati.
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Intanto continua il nostro viaggio nell'eclettico palazzo: dall’Atrio delle Colonne il rilievo di alcuni melograni (in spagnolo granada) invita allo spettacolo che sta per spalancarsi davanti ai nostri occhi una volta varcata una soglia: la vastissima Rotonda, sala da ballo ottagonale su cui si affacciano le quindici stanze degli ospiti, realizzata interamente in stile mudejar. Richiamo esplicito all’Alhambra, così come la Stanza degli Amori e quella degli Specchi, dalla volta della quale pendono centinaia di muquarnas – le piccole stalattiti tipiche dell’architettura islamica, che citano quelle della grotta in cui Maometto si ritirò per scrivere il Corano – ognuno dei quali termina in un frammento di specchio. Passando sotto cupole e nervature si arriva quindi alle coloratissime aule “indiane”, come quella dei Gigli e – immersa in fasci di lucenti arcobaleni psichedelici la più famosa – la Stanza dei Pavoni.
La ricchezza dei colori e la cura dei dettagli fa girare la testa. Questa era la sala da pranzo, alla parete ci sono i calapranzi da cui scendevano i vassoi con le vivande. Qui il fatto che tutte le decorazioni siano realizzate in stucco perde ogni peso (chi è stato in Andalusia non può non notare, negli spazi a quella ispirati, la differenza d’effetto rispetto agli intarsi in pietra o in marmo). E a fare la differenza sono proprio i colori, e dovevano farla anche per chi all'epoca abitava nella zona: la leggenda infatti vuole che quando gli artigiani lavoravano alla colorazione di queste aule, in Valdarno finissero le uova: allora usate come fissante per le tinte da applicare alle pareti.
Col passare degli anni Ferdinando, ormai solo con i diciassette domestici e sempre più ostile alla popolazione di Firenze, nel testamento stabiliva che la sua sepoltura avrebbe dovuto essere ad almeno 25 chilometri dalla città, l'odio dei cui abitanti ormai ricambiava. Oggi la sua tomba è in rovina alle porte del parco che circonda il palazzo (parco altrettanto mirabile: che con i suoi 200 ettari di sequoie – i cui 57 esemplari fanno registrare la più alta concentrazione in Europa – araucarie, tuje, tassi, palme, yucche, aceri, cedri dell'Atlante e del Libano, bagolari, frassini e ginepri, rappresenta un centro di non trascurabile interesse botanico), e che rischia – senza l’intervento di un privato illuminato o meglio ancora di un ente pubblico – di venire inghiottito a braccetto con quest’incredibile castello in un destino di rovina ingiusto quanto assurdo.
[Photo Credits: Ilaria Giannini]