© Stefano Tavoletti Mental Coach Calcio/Facebook

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Allenare la mente per vincere: il lavoro di Stefano Tavoletti con atleti e calciatori

Il mental coach toscano ci racconta come nasce un percorso di preparazione mentale, le paure più comuni degli sportivi, il peso del giudizio esterno e il valore dell’allenamento interiore nello sport di oggi

Allenare la mente come si allena il corpo. È questa, forse, la sintesi più efficace del lavoro di Stefano Tavoletti, mental coach di atleti del calibro di Leonardo Fabbri e Iliass Aouani, ma anche di molti calciatori professionisti. Lo incontriamo per capire cosa significhi davvero “allenare la mente”, come nasce un percorso di coaching e quanto la dimensione mentale possa fare la differenza nelle prestazioni e nella crescita di uno sportivo.

Come definirebbe il mental coaching, in parole semplici, a chi non ha mai sentito questo termine?

Io lo chiamo allenatore mentale. Aiuto l’atleta a raggiungere i propri obiettivi e, insieme, costruiamo un percorso per arrivarci. È un lavoro fatto di tanti step, in cui fornisco all’atleta strumenti specifici che lui poi utilizza nel suo percorso di crescita. Non esiste un protocollo unico: ogni atleta ha la sua mente, le sue necessità e i suoi obiettivi. Quello che funziona con Leonardo Fabbri, per esempio, può non andare bene con Iliass Aouani (medaglia di bronzo ai Mondiali di atletica di Tokyo 2025 ndr) o con un calciatore. La mente, come il corpo, va allenata: e l’allenamento deve essere personalizzato.

Come si struttura un percorso di mental coaching con un atleta?

Sono percorsi stagionali: all’inizio dell’anno definiamo gli obiettivi principali e li suddividiamo in traguardi mensili, settimanali e quotidiani. Ogni atleta lavora con strumenti diversi: la meditazione, la visualizzazione, la respirazione consapevole, ma non c’è un metodo valido per tutti.
Gli incontri avvengono settimanalmente – di persona, al telefono o in videochiamata – e servono per analizzare come è andata la settimana, cosa è successo in gara, dove sono emerse difficoltà o mancanza di concentrazione. Lavoriamo su quello, aggiustiamo il percorso e prendiamo contromisure. È un dialogo continuo, fatto di ascolto e di adattamento.

Quali sono le sfide più comuni incontrate quando si lavora con calciatori o atleti di alto livello sul fronte mentale?

La paura di non farcela, la voce interiore che ti martella, l’ansia da prestazione e – soprattutto – la difficoltà di restare concentrati sul presente. Spesso l’avversario più grande non è l’altro atleta, ma la propria mente.
C’è poi la paura del giudizio: quella dei tifosi, dei giornalisti, dei social. Pensi a un calciatore che il lunedì legge le pagelle: tanti preferiscono giocare “da sei” piuttosto che rischiare per paura di essere criticati. Ma se l’atleta impara a governare la propria mente, riesce ad attingere a risorse che nemmeno immaginava di avere.

Quanto incidono le pressioni esterne, dai media ai social network, sulla mente degli atleti?

Moltissimo. Prima delle gare raccomando sempre di non andare sui social, o almeno di non dare peso ai commenti. Spesso sono dettati dall’ignoranza o dalla cattiveria. Iliass Aouani, dopo i Mondiali, è stato attaccato solo per le sue origini: ma oggi riesce a riderci sopra, a prendere tutto con ironia. Anche Leonardo, all’inizio, soffriva molto i social. Ora no. Abbiamo lavorato su come gestire queste interferenze: non si può permettere a un commento di rovinare una prestazione.
Molti atleti, quindici giorni prima di una competizione importante, staccano completamente dai social. È un modo per proteggersi e mantenere la mente libera da distrazioni e tensioni.

Stefano Tavoletti con Iliass Aouani, medaglia di bronzo nella maratona ai Mondiali di Tokyo 2025 – © Stefano Tavoletti Mental Coach Calcio/Facebook

Mi racconta il suo percorso? Come è diventato mental coach?

Sono sempre stato affascinato dal funzionamento della mente umana. Vent’anni fa lavoravo in una concessionaria d’auto e mi occupavo della formazione dei venditori: insegnavo come motivare le persone. Da lì è nato l’interesse per la PNL, la motivazione e la psicologia applicata. Nel 2007 ho scritto il mio primo libro, che finì nelle mani di Walter Zenga: mi chiamò e mi volle nel suo staff al Catania, in Serie A. Da lì sono diventato il primo mental coach inserito stabilmente in una squadra di calcio italiana.
Negli anni ho continuato a studiare meditazione e mindfulness, ottenendo la certificazione da istruttore, e ho costruito un mio metodo personale. Sono nato come mental coach dei calciatori, poi il passaparola mi ha portato ad altri sport. Con Leonardo Fabbri, per esempio, ci siamo conosciuti in un momento difficile della sua carriera: da lì è partito tutto.

Come si passa dal calcio all’atletica leggera?

Il cervello è uguale per tutti, che tu lanci un peso o giochi a pallone. Con Leonardo abbiamo fatto un grande lavoro e dopo un periodo complicato ha conquistato l’argento mondiale a Budapest. Da lì sono arrivati altri atleti: Iliass Aouani, Marco Fassinotti, Federica Del Buono. È stato tutto un passaparola. Io non cerco nessuno: sono gli atleti a chiamarmi, spesso tramite i loro manager.

© Stefano Tavoletti Mental Coach Calcio/Facebook

Pensando a Leonardo Fabbri, quante scorie può lasciare una delusione come quella di Parigi in un atleta di così altissimo livello?

Tante. Quando si prepara un’Olimpiade, si vive di quel sogno per quattro anni. E se qualcosa va storto, come è successo a Leonardo con quella pedana maledetta, il colpo è durissimo. Per fortuna c’era la finale di Diamond League poco dopo, che gli ha permesso di rialzarsi. Ma le ferite mentali riaffiorano, specie nei momenti di allenamento intenso o nei ritiri.
Quest’anno è stata una stagione altalenante, con picchi importanti ma meno continuità: anche perché inconsciamente restavano quelle scorie, quel “non detto” dell’Olimpiade. Ma Leonardo è stato bravissimo a ricompattarsi e a chiudere l’anno con una grande prestazione.

© Stefano Tavoletti Mental Coach Calcio/Facebook

Possiamo dire che la figura del mental coach oggi sia stata sdoganata?

Non del tutto. Rispetto all’estero siamo ancora indietro, soprattutto nel calcio. Io sono stato un precursore, ma c’è ancora molta diffidenza. Spesso si confonde il mental coach con lo psicologo o lo psichiatra, e questo crea pregiudizi. Per molti dirigenti o allenatori, se un atleta lavora con un mental coach significa che “ha un problema”. È ignoranza, nel senso letterale del termine: non sanno di cosa si tratta. In realtà il mental coach è un preparatore mentale, come esiste il preparatore atletico.
Negli Stati Uniti da anni campioni come Michael Jordan o Kobe Bryant lavoravano con team di preparatori mentali: da noi invece in molti staff ci sono venti persone ma nessuno che alleni la parte più importante, la mente. Eppure puoi avere tutto il talento del mondo, ma se non ci sei di testa, fai fatica.

 

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