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Alberto: vigile del fuoco in missione a Beirut dopo l’esplosione

Una città distrutta, le rivolte di piazza e la paura per il contagio da coronavirus. In questo clima hanno operato 14 vigili del fuoco italiani in missione internazionale a Beirut per valutare il rischio chimico. Tra questi anche un toscano che ci ha raccontato la sua esperienza

Lo scorso 4 agosto un’enorme esplosione ha devastato il porto e una parte della città di Beirut, capitale del Libano. 200 le vittime, migliaia i feriti e gli sfollati, oltre agli ingenti danni subiti dagli edifici in un’area molto vasta. Questo evento ha causato una crisi economica ed alimentare perché l’esplosione ha distrutto il porto da cui il paese riceveva la maggior parte delle risorse. A questo si sono aggiunte le manifestazioni di piazza e una pesante instabilità politica che ha portato alle dimissioni del governo libanese.

Ed è proprio in questo scenario apocalittico che, dal 5 agosto, si è trovata ad operare una squadra di 14 vigili del fuoco italiani attivata dal meccanismo europeo di protezione civile, per rispondere alla richiesta di aiuto internazionale del Libano. Tra questi c’era Alberto Boanini, vigile del fuoco toscano, inviato a Beirut per svolgere compiti di supporto tecnico sul fronte del rischio chimico-batteriologico e per la valutazione dello stato delle strutture danneggiate.

Dopo una settimana a Beirut, il team di Vigili del Fuoco è rientrato all’aeroporto militare di Pisa su un velivolo C-130 dell’Aeronautica Militare e ha trascorso il periodo di isolamento a Firenze nella RFK International House of Human Rights di via Ghibellina, dove sono stati assistiti dai volontari della Croce Rossa.

Qual è stato il prima impatto arrivati a Beirut?

Come uno scenario di guerra

È 30 anni che sono nel Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco e qualche emergenza l’ho vissuta ma questa era totalmente diversa. C’era un’area abbastanza limitata, anche se grande, che era completamente rasa al suolo. Uno scenario che difficilmente si vede in emergenza. In un terremoto ci sono i crolli diffusi e si riesce ad individuare l’andamento dell’evento. Qui invece c’era proprio un punto dove niente aveva resistito e poi una ampissima superficie di chilometri dove i palazzi erano tutti danneggiati. È una immagine molto anomala.

In eventi di questo tipo, come avviene la vostra attivazione?

Il dispositivo che ha risposto si chiama meccanismo europeo di protezione civile. È coordinato dall’Emergency Response Coordination Centre di Bruxelles. Dopo la richiesta di aiuto da parte del Libano sono stati invitati a partecipare i sistemi di risposta dei paesi che lo compongono. L’Italia ha risposto alla richiesta specifica per l’invio di specialisti del nucleo NBCR (Nucleare, Biologico, Chimico e Radiologico) con capacità di analisi nel settore del nucleare biologico chimico e radioattivo. Questo tipo di risposta è molto rara nel meccanismo. Oltre ai team internazionali, abbiamo lavorato con le risorse locali che sono intervenute per prime in questa emergenza: i vigili del fuoco e l’esercito del Libano.

Che compiti siete stati chiamati a svolgere in questa missione internazionale?

Abbiamo svolto due tipi di intervento. Il primo legato all’NBCR: il nostro compito iniziale era capire cosa c’era nell’aria e nell’acqua così da permettere l’intervento in sicurezza degli altri team internazionali. A questo si è aggiunto l’inizio precoce delle attività di ripristino del porto di Beirut, hub di scambio merci di vitale importanza per il Libano che vive di import/export. L’altro invece è stato sul fronte della verifica di stabilità. È una cosa che sappiamo fare molto bene perché purtroppo la facciamo spesso in Italia e all’estero, come in Albania, Nepal ed Equador. Per la verifica degli edifici siamo partiti da quelli che sono strategici per la ripresa del paese. Sono stati sei giorni molto intensi dal punto di vista operativo.

Come vi siete relazionati con la popolazione locale?

È impossibile lavorare in ambiente internazionale senza un corretto rapporto con la popolazione locale. Il Libano, e in particolare Beirut, ci ha accolto benissimo. Non abbiamo avuto nessun problema anche se durante la nostra permanenza sono cominciate delle dimostrazioni di piazza, abbastanza violente, dove ci sono stati feriti ma mai verso contingente che stava intervenendo per aiutarli. Erano dimostrazioni interne dovute all’estrema instabilità politica ed economica del paese.

Sia da parte vostra che nella popolazione locale c’erano preoccupazioni per il contagio da Coronavirus?

Questo intervento internazionale è stato appesantito dalla necessità di rispettare le procedure previste per il contrasto del contagio. Quella più evidente è stata al rientro quando abbiamo dovuto fare un periodo di isolamento durante l’intervallo tra i due tamponi a cui ci siamo sottoposti. Sostanzialmente sono stati 4 giorni aggiuntivi di missione.

A livello locale, in Libano e in particolare a Beirut, la popolazione rispetta moltissimo le regole. C’è molta attenzione che francamente non mi aspettavo. Le persone portano la mascherina, non ci sono assembramenti, ad eccezione delle dimostrazioni di piazza. In tutte le altre situazioni abbiamo trovato rispetto del distanziamento sociale anche nelle strutture che abbiamo visitato. Per questo non è stato assolutamente un problema la sicurezza e lo hanno dimostrato i test medici che abbiamo appunto eseguito al nostro rientro.

Per quanto mi riguarda, resta la voglia di tornare ad aiutarli, lì dietro le macerie

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Cosa hai lasciato in Libano e che cosa hai invece riportato a casa dopo questa missione?

C’è una grossa lotta: una parte di te vorrebbe tornare a casa mentre l’altra non vorrebbe mai venire via per continuare ad aiutare. Mi resta l’immagine di una società libanese distrutta dal punto di vista economico e di devastazione della città. È stata la prima immagine che abbiamo avuto e che ci porteremo dentro nei prossimi anni.

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