OPINIONE/

Afghanistan: chi vieta la musica mette al bando la vita

Il dramma afghano ci mette davanti a mille storie: una di queste il black out voluto dai talebani dell’Istituto musicale, un progetto che aveva regalato ai giovani un grande sogno

Afghan National Institute of Music (ANIM) in Kabul, Afghanistan - © ANSA - HEDAYATULLAH AMID

La vita senza musica? No, non riesco nemmeno a immaginarla. Leggo quello che sta accadendo in Afghanistan e, come tutti, sento una fitta al cuore. Un popolo lasciato solo, quell’aeroporto assediato dalla speranza e dal terrore. Le bombe, un dopo che mette il mondo davanti a un muro: i diritti delle donne cancellati, le vendette, il sangue che colora di rosso una terra senza pace.

Tra le pagine di questa brutta storia che ha appena ricominciato la sua strada leggo anche di una scuola, l’Istituto di musica afghano, che aveva ridato energie e nuovi sogni a tanti giovani. Black out. Buio. Silenzio. La musica è finita, resta solo il rumore delle pallottole, delle bombe, le grida di chi cerca la fuga, quelle di chi blocca ogni via d’uscita. I motori dei mezzi militari, i bambini che gridano, che cercano i genitori, che vivono nell’oscurità dell’abbandono, della solitudine, della paura.

La vita senza musica? No, non è possibile. La musica è la vita stessa

La vita senza musica? No, non è possibile. La musica è la vita stessa. Vi ricordate i giorni del lockdown? Cosa facevamo noi allora? C’era chi usciva sui balconi a cantare o a suonare. Una canzone nuova che spuntava sul web sembrava un regalo divino. Confondevamo i nostri pensieri col silenzio e cercavamo riparo sui sentieri di una melodia, di un accordo elettrico, di una batteria che ci spingesse avanti verso la luce.

Abbiamo aspettato, con pazienza, la fine di tanta solitudine. Abbiamo baciato il cielo per chi ci ha lasciato: amici, parenti, conoscenti, oppure, a distanza, pianto la scomparsa di grandi protagonisti delle nostra vita. Penso a Charlie Watts e alla fortuna che abbiamo avuto di godere dei Rolling Stones per un tempo che sembrava non finire mai. Penso ai concerti ritrovati, a quelli che ci aspettano, alle canzoni che assaggiamo per le strade del centro, colonna sonora della quotidianità. Penso a chi ha sofferto la lontananza da un palco, a chi su quel palco ci è tornato coi brividi addosso, come se fosse la prima volta.

L’arte, il disegno perfetto di ciò che chiamiamo libertà

Poi ripenso a quelle immagini dell’aeroporto di Kabul e anche a quei ragazzi che stavano studiando, immaginando l’arte come disegno perfetto di ciò che chiamiamo libertà. E’ davvero difficile sciogliere questo nodo. Proteggere i sogni di quei ragazzi e di quelle ragazze. Qualcuno dovrà fare il massimo per cercare una via d’uscita. Quelle immagini mi hanno riportato alla mente le immagini di Urla nel silenzio, la fuga degli americani dalla guerra in Vietnam e Cambogia, il destino cattivo di chi è rimasto lì. Questa storia sembra davvero un film. Ma purtroppo è la realtà. Intanto, nel nostro mondo non certo facile ma sicuramente privilegiato, sarà bene ricordarci di ciò che la musica rappresenta. Di ciò che dobbiamo fare per tenerla viva, coltivarla, dare ai giovani sempre maggiori possibilità. Senza dimenticare mai di ciò che accade dall’altra parte del mondo.

Alzando il volume per attutire il dolore, immergendo il cuore nella musica. Nella vita.

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