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Dal reparto d’ospedale a salvare vite in Turchia, la testimonianza della dottoressa Sara Montemerani

Montemerani è partita per Hatay a poche ore dalla fortissima scossa di terremoto che ha colpito la Turchia. Per una settimana sanitari e vigili del fuoco del team Usar Medium hanno lavorato insieme nella ricerca e salvataggio delle persone rimaste sotto le macerie

La dottoressa Sara Montemerani, di Buonconvento, ha fatto parte del primo team Usar Medium, composto da medici, infermieri e vigili del fuoco toscani, partito alla volta della Turchia a poche ore dalla forte scossa di terremoto che ha colpito la vasta area di territorio tra la Turchia stessa e la Siria. In questa intervista ci racconta l’esperienza che ha vissuto, le criticità e le emozioni provate nell’estrarre vivo un ragazzo da sotto le macerie dopo numerose ore di lavoro.

Partiamo proprio dall’inizio, quando ha ricevuto la notizia del terremoto tra Siria e Turchia ha capito, fin da subito, che ci sarebbe stata la possibilità di partire per portare aiuto alle popolazioni colpite?

Già dalla prima mattina, mentre stavo andando a lavoro, abbiamo iniziato a scambiarci vari messaggi sul gruppo WhatsApp per l’Usar. Parlavano del terremoto e di alcune riunioni con la protezione civile per capire se ci sarebbe stata o meno l’attivazione. Questo alle sei di mattina. Ho iniziato a lavorare in reparto e alle 11 è arrivata l’attivazione del gruppo Usar toscano. Quindi ho lasciato il mio posto di lavoro, sono andata a casa a preparare lo zaino, per essere poi all’aeroporto di Pisa per le 15. È stato tutto molto veloce e concitato, siamo passati da messaggi generali di prima mattina su una probabilità, alla partenza nel primo pomeriggio.

Per voi sanitari è stata la prima esperienza sul campo nel team Usar Medium?

Sì, abbiamo fatto il corso Usar Light, obbligatorio per tutti quelli che lavorano nell’ambito dell’emergenza territoriale toscana durante il Covid. Siamo poi passati al livello Usar Medium, fatto successivamente in tre sessioni, tra settembre e novembre 2022, mentre a dicembre abbiamo fatto la prima simulazione. Eravamo freschi freschi del corso.

Immagino che nonostante la preparazione e le esercitazioni, poi sul campo sia tutta un’altra cosa.

Quando facciamo le simulazioni, logicamente, sono in un ambiente protetto. Familiarizziamo su come muoverci tra le macerie, le cose a cui dobbiamo stare attenti, quali dispositivi di protezione individuale indossare, è la stessa cosa per i piloti con i simulatori di volo. Familiarizziamo con l’ambiente e con quello che potremmo trovarci davanti. La realtà è poi nettamente diversa. Il simulatore non simula le scosse di terremoto mentre lavori e stai trattando un paziente incastrato sotto le macerie.

In che scenario vi siete trovati ad operare?

Durante un briefing alla partenza ci hanno illustrato, più o meno, la zona dove saremo andati ad operare e quali potevano essere le condizioni che ci saremo trovati davanti. Quando siamo arrivati le condizioni erano molto peggiori. Non è colpa di nessuno, ma arrivando tra i primi, anche le informazioni erano poche e filtrate. La città era completamente distrutta, non c’era un palazzo che fosse rimasto in piedi. Quelli ancora in piedi erano inagibili perché semi crollati. Tutta la popolazione era riversata per strada. La situazione era tutta ancora in divenire e continuavano le scosse, anche di una certa intensità.

Il fatto di essere sul campo con la squadra dei Vigili del Fuoco con già una certa esperienza in questi scenari vi è stato di aiuto?

Loro sono una famiglia straordinaria. Tanti avevano esperienze su vari tipi di missioni, c’era chi era stato a L’Aquila, chi a Rigopiano, avevano tutti diverse esperienze sulle spalle. Una delle cose che mi più mi sono portata a casa è stata proprio l’integrazione che c’è stata con loro. Come sanitari lavoriamo normalmente con i Vigili del Fuoco nell’emergenza territoriale, come ad esempio gli incidenti in autostrada, siamo abituati a lavorare con loro. Lì, in Turchia, era un contesto completamente diverso da come si lavora nella realtà quotidiana. Credevamo che sarebbe stato necessario un certo adattamento a questo nuovo tipo di lavoro creato dalle criticità. In realtà non è stato così, anzi il fatto di lavorare tutti con lo stesso obiettivo, ci ha unito ancora di più.

© Vigili del Fuoco

Ci racconta di come siete riusciti a salvare da sotto le macerie il ragazzo di 22 anni?

Sia a livello operativo che psicologico è stato molto complesso e impegnativo. È stato un salvataggio quasi casuale. Eravamo destinati a lavorare su un sito diverso, un palazzo di sei piani crollato. Quando eravamo lì, dei volontari della protezione civile turca ci hanno detto che lì vicino c’era un ragazzo che chiamava aiuto da sotto le macerie. Io con il mio collega Samuele Pacchi, infermiere, e alcuni dei vigili del fuoco siamo andati a vede, staccandoci dal gruppo centrale che ha continuato a lavorare sul sito che ci era stato affidato. Arrivati sul posto, abbiamo sentito il ragazzo che parlava, chiedeva aiuto, da sotto le macerie. A quel punto sono iniziati i lavori di avvicinamento da parte dei vigili del fuoco. Sono servite oltre nove ore per estrarre il ragazzo che era sotto quattro solai con le gambe completamente incarcerate dentro un termosifone. La fortuna è stata che mentre i vigili del fuoco lavoravano dall’alto, in verticale, siamo riusciti ad avvicinarci a lui da un lato. C’era una specie di tunnel che ci ha permesso di arrivare a lui, vedevamo solo la testa e una mano, questo però ci ha permesso di prendere i parametri, fare la terapia antidolorifica, flebo e di nutrirlo. Quando siamo riusciti ad avvicinarci al ragazzo, ha iniziato a piangere, probabilmente pensava di aver perso le speranze e di non riuscire ad uscire vivo da lì sotto.

Estrarlo vivo deve essere stata una grande emozione?

Dopo nove ore e mezzo di lavoro, l’abbiamo portato fuori e c’è stato l’applauso generale di tutte le persone che erano lì, c’era la madre, altri familiari, volontari e tante altre persone del posto. L’abbiamo caricato sull’ambulanza ed è lì che sono crollata in un pianto di gioia per quello che siamo stati in grado di fare.

Cruciale il lavoro di squadra.

Non è stato merito del singolo, è stato merito del lavoro di tutti. Abbiamo dato il massimo, ognuno con le sue competenze. Un lavoro congiunto di tante persone. Paradossalmente anche della popolazione perché essendoci distaccati dal campo base non avevamo tutte le attrezzature con noi. Per scaldare le flebo, ad esempio, ci hanno acceso un piccolo fuoco e portato un pentolone con l’acqua calda. Sono stati poi preziosi i volontari della protezione civile turca che ci hanno fatto da interpreti e intermediari. Si procuravano le attrezzature che servivano a noi o ai vigili del fuoco. È stata una collaborazione generale che ci ha permesso di raggiungere l’obiettivo.

Ci sono stati momenti in cui ha pensato di non farcela?

Sì, ce ne sono stati diversi, momenti in cui abbiamo avuto paura. Tre gli episodi che mi sono capitati. Essendo io la più minuta fisicamente, ero l’unica che riusciva ad entrare tra le macerie e avvicinarmi il più possibile a dove era il ragazzo per fare la terapia e monitorarlo. Durante le oltre nove ore, ad un certo punto, c’è stata una forte scossa di terremoto, è durata diversi secondi, quello è stato probabilmente il momento di panico più assoluto perché mi trovavo in una posizione che non mi permetteva di uscire velocemente. Ho sentito il suono dell’allarme della sentinella che avvisa del pericolo per l’arrivo di una scossa, al suono si dovrebbe smettere di lavorare e allontanarci dal campo per metterci in sicurezza. Ho sentito l’allarme e i ragazzi della squadra mi hanno detto “Sara esci”, ero talmente infilata sotto le macerie che non avevo tempo a sufficienza per uscire. È andata bene, non ci sono stati ulteriori crolli e sono riuscita ad uscire però la paura è stata tanta. Lavorando tra le macerie resta poi la paura che possa crollare tutto. Durante un turno notturno poi si sono avvicinati i militari turchi che ci facevano da scorta per dirci di scappare dal campo. In lontananza sentivamo dei botti e ci hanno spiegato che erano degli sciacalli che con queste piccole esplosioni facevano fuggire le persone per poi rubare quello che trovavano. Siamo scappati tutti, il nostro interprete era molto spaventato e ha avuto un attacco di panico per la pressione e la paura di non riuscire a metterci tutti in salvo.

Essere preparati e conoscere le procedure è importante ma l’impatto a livello psicologico è comunque forte.

Sì l’impatto è forte. Guardando a posteriori questa esperienza devo dire che forse son più necessarie doti non tecniche. Nel senso che alla fine tutti sappiamo mettere una flebo, almeno i sanitari appunto, tutti sanno fare un farmaco antidolorifico e lì la cosa che ha fatto la differenza sono state le capacità di lavorare in gruppo, in maniera armonica. Durante le operazioni eravamo circondati dalla popolazione locale carica di speranza. C’è stata una interazione continua con queste persone, pur non parlando la stessa lingua, nell’attesa di estrarre una persona viva da sotto le macerie o negli sguardi quando consegnavamo i corpi ai familiari. Queste persone hanno perso tutto e molti di loro hanno perso almeno un membro della propria famiglia. Era una condizione di supporto continuo dove l’umanità ha giocato un ruolo cruciale.

È rimasta in contatto con qualcuno del posto?

Siamo rimasti in contatto con alcuni dei volontari della protezione civile turca. Anche loro lavorano a rotazione, stavano tre-quattro giorni sul campo e poi rientravano alle loro vite. Uno di loro era un programmatore informativo, l’altro lavora all’aeroporto di Istanbul. Con loro siamo rimasti in contatto, anche per rimanere aggiornati sulle condizioni del giovane che avevamo estratto vivo da sotto le macerie. Ora ci continuano a scrivere, ci mandano foto.

Durante questa missione in Turchia si è mai detta: “ma chi me lo ha fatto fare” o l’esperienza sul campo l’ha ripagata di tutto l’impegno e lo sforzo fatto ed è rimasta convinta della scelta di entrare nella squadra Usar medium?

Ho avuto tutti e due i momenti. La prima notte, quando siamo arrivati, non avevamo ancora niente della logistica, perché era tutto su un altro aereo, in arrivo di lì a poche ore. Quella notte abbiamo praticamente dormito, anche se dormire è una parola grossa, sotto dei gazebo, al freddo, senza acqua potabile, su un terreno bagnato dalla pioggia del giorno. Lì al freddo mi sono chiesta ma perché l’ho fatto? La mattina dopo è stato invece tutto il contrario. Abbiamo iniziato a lavorare sul campo e ho avuto conferma dell’importanza e utilità della missione. Per noi sanitari fare il corso ed entrare negli Usar Medium è stata una scelta individuale. Conclusa questa esperienza in Turchia, nella totale casualità che mi ha portato a fare domanda per il corso, devo dire che ho fatto la scelta giusta. Tra l’altro, piccolo aneddoto, il mio coordinatore infermieristico mi aveva rassicurato dicendo che le attivazioni erano rare, soprattutto quelle internazionali. Invece a poco più di un mese dalla fine del percorso di formazione siamo partiti.

Tornerà in Turchia?

È un paese dove sono già stata molte volte ed è estremamente affascinante. Mi piacerebbe tornare, perché dopo una catastrofe di questo tipo non sarà semplice, per loro, rimettersi in piedi. Sarà importante aiutarli sotto altri punti di vista, grazie anche al turismo.

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