Dopo un’estate costellata di sold out e una speciale chiusura al Fabrique di Milano, il La vita segreta Festival Tour di Alessio Mariani in arte Murubutu approda venerdì 5 settembre a Pontassieve, all’interno del festival “Intrecci”.
L’artista emiliano porta dal vivo i brani del nuovo album La vita segreta delle città, uscito lo scorso marzo e subito entrato nelle classifiche FIMI al 4° posto tra i vinili, al 28° tra gli album.
Considerato tra le voci più originali della scena hip hop italiana, Murubutu intreccia rap e cantautorato con testi di forte intensità poetica e narrativa, ispirati a figure come Calvino, Woolf e Joyce.
Il nuovo progetto, accompagnato da una band nata in collaborazione con lo Sghetto Club di Bologna, è un concept-album dedicato alle città: spazi reali e immaginari che diventano metafora delle esperienze umane, tra sogni di riscatto e solitudini metropolitane.
Un live che conferma la cifra distintiva dell’artista: lo storytelling rap capace di trasformare le cronache urbane in poesia contemporanea.

Ecco la nostra intervista a Murubutu
Ciao Alessio! Hai dedicato un disco intero a città come Palermo, Dublino, Parigi, New York, mi immagino che tu sia un grande viaggiatore. Volevo chiederti quando arrivi in una città qual è la prima cosa che guardi o che noti?
Sicuramente le piazze, sono la cosa che mi interessa vedere subito per capire da dove parte il flusso della vita, come si incrociano la presenza degli stranieri e alcuni elementi architettonici rappresentativi, queste sono le cose che mi interessano. Penso per esempio a Praça do Comércio a Lisbona, o alla piazza dedicata a Che Guevara a L’Avana, secondo me sono elementi identificativi che dicono molto di una città.
Il Rap a differenza di altri generi musicali ha una capacità espressiva superiore, e una prossimità alla letteratura notevole perché sacrifica la melodia per la ritmicità, utilizza moltissimo le figure retoriche, ragiona sulla metrica
Come hai scelto le città di cui parli nel disco, sono luoghi che hai visitato, a cui sei legato particolarmente?
Ho fatto un po’ di ricerche dal punto di vista sociologico ma anche letterario per capire, per Parigi non c’era bisogno di una storia perché parla da sola. Ma le storie che ho ambientato a Dublino, Palermo hanno tutte un riferimento concreto a storie reali.
Uno dei tuoi pezzi si intitola “Megalopoli” non pensi che le metropoli siano ormai un modello che sta fallendo, una struttura, uno stile di vita che sta danneggiando l’essere umano?
Beh sì, le megalopoli sono in espansione ma aumentano sempre di più, come dicevi te, le contraddizioni. Ultimamente ho avuto l’occasione di vedere Bangkok, è una città tentacolare, incredibile, dove forse questo squilibrio è meno visibile che in altri posti, ma ti da l’idea di come a distanza di pochi metri possano convivere povertà ed estrema ricchezza.
Questo progetto sulle città avrà un seguito? Racconterai altre storie?
Questa settimana esce proprio un nuovo singolo, che ho anticipato sui social, che si intitola “Sumud” ed è dedicato a una città molto particolare che è Gaza.
In passato hai dedicato un disco a Dante Alighieri “Infernvm”, come racconteresti la città di Firenze?
Nell’estensioone delux di quel disco c’è proprio un pezzo dedicato a Dante ambientato a Firenze, cito la chiesa piccolissima di Santa Maria dei Cerchi, che non viene quasi mai visitata.
Oltre che un musicista sei anche un professore e nei tuoi talk hai parlato moltissimo del rapporto tra il Rap e la letteratura, cos’ha di speciale questo linguaggio rispetto ad altri?
Il Rap a differenza di altri generi musicali ha una capacità espressiva superiore, e una prossimità alla letteratura notevole perché sacrifica la melodia per la ritmicità, utilizza moltissimo le figure retoriche, ragiona sulla metrica. Il problema è che l’alunno non si impegna, ha un grande potenziale ma non lo utilizza. Quando lo si utilizza, per esempio come fa Caparezza, il risultato è decisamente superiore anche a livello letterario non solo musicale.
Ti riferisci al fatto che spesso nel Rap si continua a parlare attraverso cliché ormai un po’ obsoleti?
Più che a volte, quasi sempre.