Un uomo alto, affascinante, elegante nel suo completo di lino chiaro, le parole scandite una per una sotto la barba che era un po’ il suo marchio di direttore, padre, guru, filosofo ma, soprattutto, grande giornalista. “Mi raccomando, voglio titoli icastici e cantabili”, ci disse a noi giovani apprendisti pronti a lanciarci (era l’ottobre del 1988) nell’avventura fiorentina di Repubblica. Eugenio Scalfari è stato capace di attraversare un secolo di storia lasciando un segno profondo con una rivoluzione del mestiere che oltrepassò il vecchio inventando prima un settimanale di inchiesta, L’Espresso, e poi un quotidiano che da zero conquistò in breve tempo la leadership del settore.
La Repubblica di Eugenio Scalfari è stato a lungo punto di riferimento per l’Italia laica e progressista, dando spessore a un pensiero che in politica non riuscì mai a esprimersi al meglio, schiacciato tra la Dc, il Pci, e poi il craxismo, fenomeno politico che Scalfari combattè con decisione, prima che, dopo tangentopoli, il nemico diventasse Silvio Berlusconi e il conflitto di interessi che portava con sé.
Punto di riferimento per l’Italia laica e progressista, dando spessore a un pensiero che in politica non riuscì mai a esprimersi al meglio
Un direttore manager, un padre padrone per i suoi avversari, un geniale visionario per i suoi fedelissimi e per chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo parlare in riunione o di leggere le sue analisi politiche sul quotidiano da lui diretto prima di passare il timone a Ezio Mauro. L’energia creativa di quegli anni resta nel cuore di più di una generazione.
Le inchieste coraggiose, le prese di posizione nette che sottintendevano una passione viscerale per la politica, quella fatta di slanci ideali, di pragmatismo e di angoli oscuri, quelli bruciati sulla pelle del paese, negli anni di piombo, nelle stragi di Mafia. La Repubblica di Eugenio Scalfari, per molti anni, è stata la guida per una sinistra e un centrosinistra sempre in cerca di certezze, divenendo punto fermo per gli elettori smarriti nei momenti di crisi del pensiero progressista.
Tra le pieghe di una biografia degna di un libro sulla storia d’Italia e, naturalmente, del giornalismo, è giusto ricordare passaggi che possono sembrare minori, ma nei fatti non lo sono. La scelta, per esempio, di valorizzare al massimo non solo la ricerca delle notizie ma anche la scrittura. Un modo di raccontare le storie che oggi è diventato usanza comune. Il racconto ormai è una regola: sui giornali, nei podcast, a teatro, in tv. Eppure la decisione di dare vita alle pagine sportive in un quotidiano che allora non usciva neanche il lunedì portò con sé una piccola scossa sismica nel giornalismo sportivo. Firme come quelle di Gianni Mura, Gianni Clerici ed Emanuela Audisio hanno impreziosito un settore dove la necessità di uscire dalla regola della retorica e dell’ovvio era un must.
Scalfari era carisma e strategia, era saper muoversi alla ricerca di una via d’uscita
Noi le riunioni romane le ascoltavamo prima di iniziare la nostra. Spesso erano lezioni di giornalismo, ma anche arricchimenti di cultura politica. Scalfari era carisma e strategia, era saper muoversi alla ricerca di una via d’uscita, con un occhio sempre attento a ciò che stava alla base di una missione, la difesa delle istituzioni democratiche: dai servizi deviati, dalle mafie, dal terrorismo, dal populismo estremo.
Sandra Bonsanti, a lungo inviata di Repubblica, ama spesso raccontare un aneddoto per svelare il lato umano di un direttore decisamente speciale. “Quando ci fu la strage dei Georgofili fui mandata subito a Firenze. Ricordo che iniziai il mio articolo con la poesia di Nadia Nencioni, la bambina uccisa dalla bomba. Scalfari il giorno dopo mi chiamò e mi disse: “Sandra, oggi mi hai fatto commuovere: confesso di aver pianto”.
Il direttore Scalfari era anche questo, oltre che altre mille cose, per i suoi nemici, non pochi, e per i suoi seguaci. E anche per noi, che dopo aver ascoltato in silenzio le sue parole nella stanza dell’allora caporedattore Mario Sconcerti, ci guardammo negli occhi interrogandoci l’un l’altro in religioso silenzio: cantabili ok, ma icastici? Ne avevamo da fare di strada. Ma il maestro era quello giusto. E La Repubblica una occasione unica: per noi che ci lavoravamo e che magari, qualche anno prima, al liceo, lo avevamo scelto come il “nostro” quotidiano. Come faro politico e, perché no, esistenziale.