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Tre anni senza il Mondo: “Non è finita fino a che non è finita”

Il lottatore, il mister controcorrente, la sua Fiorentina, la sua Rivolta d'Adda, la Cascina, i suoi 'ragazzi fragili' e quelli 'fortunati'. Una lettera aperta per ricordare l'uomo che nessuno dimenticherà mai

CALCIO: SPAREGGIO; FIORENTINA IN A, PERUGIA RETROCEDE - © ANSA/CARLO FERRARO/RED

Servirebbe la tua energia adesso Mister, servirebbero le tue parole che aiutavano a guardare oltre e scavalcare il perimetro dentro il quale viviamo. Alzare lo sguardo, spingersi in avanti. Avremmo bisogno di uno dei tuoi discorsi che respingevano l’ovvio per aprire orizzonti.

La tua vita era il calcio ma non solo quello, non era solo rettangolo verde e fischi d’arbitro, calci di rigore e studiate geometrie per muovere la squadra in avanti e portarla a vittoria. Il calcio era piuttosto strumento di applicazione di ciò che eri, che sei. E qui sta la differenza sostanziale.

La sostanza conta, Mister. Me lo hai insegnato tu, lo hai inculcato a tutti noi senza mai assurgere a professore della vita. Quel che sei, la tua famiglia, la tua gente, la tua Cascina, i tuoi animali, i tuoi ragazzi: portavi tutto dentro quei novanta minuti di pallone e poi lo portavi fuori, negli oratori, tra le persone fragili, spaurite da quel gigante che è la vita. Vulnerabili, come ci sentiamo noi oggi di fronte ad una battaglia che ci ha trovato per quasi un anno senza armi di difesa. O forse qualcuna ce l’avevamo,  avresti detto tu. La responsabilità, il senso di comunità, il rispetto per gli altri, quella ‘cura’ che non è solo quell’agognato vaccino. E mai come ora, in questo preciso istante, questa parola prende valore, forma, sostanza.

Tu ci hai insegnato che dobbiamo incamerare energia anche quando le energie sono al minimo

Cura. Cura dei nostri affetti, delle persone che amiamo, cura dei più deboli, di chi ha necessità di glaciali ventilatori meccanici per continuare a vivere, a tirare respiri per vincere un’altra partita, un’altra maledetta prova che ci mette davanti la vita. Se ci penso mi manca il fiato Mister.

Ma tu ci hai insegnato che dobbiamo incamerare energia anche quando le batterie sono al minimo per continuare a correre ancora. Eri un maestro, lo sei. Maestro è una parola bellissima che oggi usiamo forse troppo poco, non trovi? L’albero maestro, la strada maestra, una guida che ti insegna, ti sostiene e poi ti lascia andare quando hai maturato esperienza per proseguire solo.

In ognuno di noi hai lasciato quel lievito madre che ha alimentato le nostre strane vite dove si fa fatica a trovare la direzione

Lo sei per i tuoi ragazzi, per chi ti ha incontrato e con te ha condiviso parole, conversazioni che andavano oltre il banale. Per loro, per noi tu hai rappresentato ‘lievito madre’. Per quelle famiglie, quei bambini, quei giovani spezzati dall’alcol o dalla droga, quelli che la vita gli aveva tolto pezzi di speranza ma anche per i tuoi ragazzi fortunati, quelli che almeno un sogno l’hanno afferrato.

In ognuno di loro, in ognuno di noi, hai lasciato quel lievito madre che ci ha trasmesso nuove virtù ed ha alimentato le nostre strane vite dove si fa fatica a trovare la direzione. Un pezzo di te è dentro di noi.

Quando svesti la maglia da gioco e la gente si dimentica di te rimani solo quello che giocava in Serie A 

E mi viene da pensarci adesso che sono tre anni che non ci sei mister. E mi tornano alla mente le parole che ci siamo detti in una delle ultime telefonate, mi raccontavi dei tuoi progetti con la nazionale amputati e poi mi spronavi a non lasciare solo un grande amico che in quel momento stava affrontando forse la sua partita più difficile, di quelle che ti trovi a giocare da solo, quando i riflettori del successo si spengono e la gente si dimentica di te, appena svesti la maglia da gioco e rimani solo “quello che giocava in Serie A”.
Vai avanti e l’affronti solo se sei qualcos’altro, oltre al calcio. Se sei uomo prima di essere giocatore.

Questa credo che sia la più grande lezione che hai lasciato anche ai tuoi ragazzi, tra lo studio di una partita, un allenamento, una vittoria, una sconfitta.

Tu, acuto osservatore, sapevi guardare oltre la corteccia

Essere uomini. Tu, acuto osservatore, sapevi guardare al di sotto della corteccia. Tu sapevi essere equilibrato e folle, condottiero di un esercito di giocatori a volte geniali, a volte “senza i piedi buoni” avrebbe detto un Ligabue d’altri tempi ma che tu sapevi nutrire di grande cuore. Facile vincere le battaglie con Gullit, Rijkaard e Van Basten. Eppure le partite, quelle più belle, si vincono – e capita, per fortuna – anche quando in campo si mettono Riganò, Fantini o Soncin. Perché se alimenti quel “credo” dentro, quella forza, quella speranza, allora sì, puoi vincere anche la sfide impossibili. Le puoi vincere anche quando sembra solo vana speranza. Ed eccolo quel guizzo che ti risolve la partita, eccola quella pennellata che riaccende il sorriso.

Servirebbe anche oggi quel tuo mezzo sorriso mai soddisfatto fino in fondo che alza gli occhi verso la tribuna ‘quasi a dire’: “Ci davate per sconfitti e invece l’abbiamo portata a casa”.

Oggi mister ti vorremmo qua, vorremmo essere i tuoi ‘indiani che lottano contro i cowboys’, perché oggi c’è da tenere duro, da stringere i denti e non mollare per vincere quella che fino a poco tempo fa sembrava una partita impossibile. E invece no, noi siamo ancora qua. Non è finita finché non è finita.

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