Come si vive quando tutto intorno è oscurità? Come si va avanti quando tutto sembra perduto? Come si agisce insieme per costruire un futuro in un tempo di paura e angoscia? A queste e ad altre domande hanno cercato di rispondere gli artisti di fronte all’avvento dell’HIV-AIDS negli anni Ottanta e Novanta.
Un grande mostra, prima e unica in Italia di questo genere, al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato racconta la crisi di quegli anni come un momento generativo, in cui si sono formate alleanze inaspettate, in cui l’amore è diventato spazio di azione politica.
“VIVONO. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia. 1982-1996” a cura di Michele Bertolino, aperta fino al 10 maggio 2026, è una storia collettiva, il ritratto di una generazione viva: parole scritte, immagini, voci e linguaggi che intrecciandosi con l’amore e il lutto, ricompongono la storia dimenticata delle artiste e degli artisti italiani colpiti da questa malattia.
Opere d’arte, poesie, paesaggi sonori e video, materiali d’archivio e memorie personali cercano di delineare un possibile percorso dalla prima segnalazione di AIDS conclamato in Italia all’arrivo delle terapie antiretrovirali.
L’HIV-AIDS non è un tema o un soggetto delle opere in mostra, quanto più una griglia interpretativa tramite cui guardare al mondo, coglierne la fragilità e proporre la bellezza, tattile, relazionale e di vita, come possibile risposta a una pandemia silenziata.

La mostra: un archivio non finito a più voci
Il percorso espositivo si apre con una produzione filmica realizzata per l’occasione da Roberto Ortu. Nel film, le poesie di Dario Bellezza, Massimiliano Chiamenti, Nino Gennaro, Ottavio Mai, La Nina, Marco Sanna e Pier Vittorio Tondelli, poeti che hanno vissuto con l’HIV e lo hanno raccontato, sono lette da attrici, attivisti e artiste.
La mostra costruisce una sorta di archivio a più voci che raccoglie documenti, manifesti, articoli di giornale, video e tracce sonore che tratteggiano la dimensione storica, politica, sociale e culturale italiana tra il 1982-1996.
Per sottolineare il carattere non-finito di questa ricostruzione, i materiali sono presentati su grandi bacheche da lavoro dotate di ruote, che suggeriscono la possibilità di riconfigurare la narrazione.
Tra i documenti, sono presentate le opere d’arte di artiste e artisti italiani, tracce o testimonianze, spesso gridate a pieni polmoni altre volte sussurrate, che complicano la comprensione di quegli anni e offrono occasioni di approfondimento su questioni specifiche.
Affiorano tra i documenti storici, gli interventi di Emmanuel Yoro e Tomboys Don’t Cry che offrono delle prospettive contemporanee di lettura, sottolineando vuoti e silenzi, ma anche Valeria Calvino, Daniele Calzavara e i Conigli Bianchi.
Non mancano le opere di artiste e artisti internazionali che espandono ulteriormente queste riflessioni, come: i poster di Gran Fury esposti alla Biennale del 1990, le opere di Keith Haring, le tende di organza blu di Felix Gonzalez-Torres (presentate al Castello di Rivara nel 1991), i lavori di David Wojnarowicz e Walter Robinson, proposti a Milano da Corrado Levi nel 1984.
Le sale dedicate a Nino Gennaro, Francesco Torrini e Patrizia Vicinelli
Tre sale della mostra sono dedicate interamente al lavoro di Nino Gennaro, Francesco Torrini e Patrizia Vicinelli, nelle cui opere, poesia, immagine e corpo si integrano.
Vicinelli dà alla parola uno spessore fisico, la trasforma in corpo, fragile e combattivo, in grado di desiderare e toccare la libertà.
Nino Gennaro lotta per il diritto alla casa e contro la mafia, è inserito in un tessuto sociale intersezionale, parla di affetto e amore, dell’importanza della gioia e del riconoscimento reciproco in opere che uniscono ricerca verbo-visiva, teatro e collage.
Francesco Torrini, legato alla comunità fiorentina degli anni ‘80 e consapevole delle esperienze internazionali, dice del corpo come luogo di memoria e condensa nelle sue opere un’attenzione spirituale laica.
