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© Jonathan Canini

Cultura /teatro

Le confessioni di Jonathan Canini: “Sì, recito in vernacolo. Benigni? Una divinità”

Comico, cabarettista, youtuber o attore? Forse Jonathan Canini è semplicemente Johnny. Un giovane toscano di talento che scherza ‘seriamente’ col vernacolo. Ci racconta qualcosa di sé, dai video virali ai sold-out di “Cappuccetto Rozzo”

Qualcuno l’ha definito youtuber. Altri dicono sia un comico, altri ancora un cabarettista. Forse le etichette sono solo una convenzione per classificare la creatività. Quel che è certo è che lui, Jonathan Canini, è un giovane talento. Funambolo del linguaggio – pardon, del vernacolo – giorno dopo giorno, non senza fatiche, sta costruendo la propria identità artistica. Dire che i suoi video divertono e che i suoi sketch teatrali fanno ridere sarebbe riduttivo, oltre che ingiusto. Anche se poi è tutto vero, perché guardando i video ci si diverte davvero. E si ride. A volte proprio perché ad essere esasperate, nelle sue caricature, sono proprio le caratteristiche della toscanità che si declina con ineluttabile campanilismo in ogni frammento di territorio.

Canini ha 26 anni, vive e abita a Santa Maria a Monte (Pisa), ma ha parenti sparsi in tutta la Toscana. Una vera e propria fonte d’ispirazione. Jonathan inizia con gli spettacoli dal vivo e agli spettacoli dal vivo è tornato dopo esperienze col cinema, la sua grande passione. Ha prodotto cortometraggi e film, ha recitato in serie tv. Ma soprattutto progetta, crea e pubblica contenuti per il web che gli valgono più di 200 mila follower su facebook, instagram e youtube. “Però non sono molto tecnologico”, ci dice. Infatti il suo bisogno di esprimersi trova nei social network un mezzo, non un fine. Il suo pubblico, con cui stringe un legame empatico, da virtuale è diventato reale. “Prima di salire sul palco l’emozione morde forte”, ci confessa. Ma questo non lo ferma. Ora porta in scena Cappuccetto Rozzo, scritto e recitato insieme a Riccardo Di Marzio. Ebbene, per il primo spettacolo dopo il lockdown, alla Fortezza di Mont’Alfonso, a Castelnuovo di Garfagnana, c’erano più di 700 persone. E sold-out erano tutti gli spettacoli che hanno preceduto l’emergenza sanitaria. Le sedie, disposte a debita ‘distanza sociale’, erano occupate da tre generazioni. Nonni, figli, nipoti. Molti dei quali, a fine serata, sono andati alla ricerca di un selfie (seppur in sicurezza). Il suo prossimo spettacolo è in programma il 12 settembre a Villa Bottini, all’interno della rassegna Lucca Risuona. Nell’attesa proviamo a conoscere meglio questa nuova stella della comicità toscana (che in realtà aspira a diventare un “quasi” attore).

Jonathan o Johnny? Come preferisci essere chiamato?

“Gli amici mi chiamano Johnny. Mi piace, mi fa sentire a mio agio. Per i familiari invece sono Jo, che loro pronunciano ‘Giò’. Dato che mi chiamano spesso, devono cercare di abbreviare per far prima”.

Vada per Johnny. Un nome che non è toscano, almeno non in senso stretto. Eppure tra Pisa e Livorno ci sono parecchi Jonathan, Kevin, Yuri, Maicol. Anche in questi nomi c’è un po’ di toscanità?

“Certo che sì. Inoltre ti confesso che il mio nome mi piace, anche se non è sempre stato così. A scuola c’era un ragazzo chiamato Jonathan, proprio come me. Non era il miglior esempio di simpatia. Poi cambiai scuola e imparai ad amare quel nome, di cui ho studiato anche le origini. È ebraico”.

Nei tuoi video, così come negli spettacoli, imiti i vernacoli di mezza Toscana. Tu sei originario di Santa Maria a Monte, in provincia di Pisa. È quella la tua appartenenza?

Appartengo a tutte le province e a nessuna. Il motivo è presto spiegato: ho una famiglia ‘mista’. I miei parenti sono ovunque. Mia zia è di Livorno, la nonna è di Ghizzano, altri zii sono di Campocatino. E poi abbiamo anche un fiorentino in famiglia… Fin da piccolo, durante i pranzi e le cene di Natale, ero sempre affascinato da tutta questa varietà di culture e di linguaggi”.

Spesso negli spettacoli tiri in ballo i tuoi parenti. Quindi non sono frutto della finzione, ma esistono davvero.

“Non sono veri, sono verissimi. Tra l’altro dopo l’ultimo spettacolo di Cappuccetto Rozzo, quello a Castelnuovo di Garfagnana, un signore di Campocatino mi ha avvicinato dicendomi ‘Oh topino, hai detto d’avé ‘ pparenti a Gampogatino, ma io un ci credo mìa’. E invece dopo avergli fatto nomi e cognomi si è dovuto ricredere”.

Ad assistere a quello spettacolo, nella Fortezza di Mont’Alfonso, c’erano più di settecento persone. Un numero importante in senso assoluto, ma che acquista ancor più significato se si pensa all’emergenza sanitaria. Un successo inatteso?

“Francamente siamo sorpresi, nessuno se lo aspettava. Devo ammettere che nel giro di due anni mi è cambiata la vita. La più grande vittoria, al momento, è riuscire a trasformare la passione in un lavoro. Il percorso è lungo, ne sono consapevole. Se mi domandi cosa spinge settecento persone a venirmi a vedere, be’, onestamente ti rispondo che non lo so. Però di una cosa sono certo: con il pubblico percepisco una straordinaria empatia. Un calore che non si è indebolito neppure durante il lockdown, che, ahinoi, ha messo in ginocchio tutta l’industria del teatro. E non solo quella”.

Quando tutto si è fermato, tu e Riccardo Di Marzio eravate già in tour con Cappuccetto Rozzo.

“Stava andando tutto bene, i teatri erano pieni. Rimandare le date sold-out è stato per noi un duro colpo. Eravamo dispiaciuti per quel che stava accadendo, ma anche per il pubblico, che in quelle lunghe settimane non ha mai fatto mancare la sua presenza. Ci hanno letteralmente sommersi di messaggi. È stato un modo come un altro per continuare a sentirci vicini”.

Anche ai giovani piacciono le espressioni vernacolari che non utilizzano nella quotidianità, ma che riconoscono come appartenenti alla loro cultura e a quella dei loro nonni

Facciamo un passo indietro. La popolarità è arrivata col vernacolo?

“Proprio così. Dopo la pubblicazione del primo video in vernacolo in cui proponevo i quattro personaggi toscani – il lucchese, il livornese, il pisano e il fiorentino – ho registrato un’impennata improvvisa di contatti e visualizzazioni. Anche ai più giovani piace sentire termini ed espressioni vernacolari che magari non utilizzano nella quotidianità, ma che riconoscono come appartenenti alla loro cultura e a quella dei loro nonni. Forse perdiamo un po’ della nostra tradizione linguistica, ma esiste un legame affettivo che non si spezza. Poi, oh, quei quattro personaggi non sono altro che le caricature dei miei parenti…”.

Per ogni video prodotto si percepisce che c’è un gran lavoro. È così?

“Non potrebbe essere diversamente. A volte investo giorni o settimane per scrittura, riprese e montaggio. Tra l’altro scrivo sempre a penna, mai con un computer. E poi cerco di fare del mio meglio anche con la regia, cercando di tenere ben presenti le regole base della cinematografia, a cominciare da campo e controcampo”.

In una recente intervista su La Lettura del Corriere della Sera, rispondendo a una domanda sul linguaggio, Alessandro Benvenuti ha dichiarato di avere “un’insofferenza verso la toscanità”. Ha poi aggiunto che “il linguaggio è una pianta che va saputa potare, non si può sfruttare biecamente perché poi si secca”. Per te la toscanità è un’opportunità o una gabbia?

Il vernacolo dovrebbe quindi tornare a essere protagonista, in teatro come al cinema

“Non è affatto un limite, e ti spiego il perché. Sono un fan di Massimo Troisi ed è grazie ai suoi film che mi sono innamorato del cinema e ho cominciato a sognare di fare l’attore. Eppure lui recitava in napoletano. Alla scuola di cinema ci dicevano che parlare in dialetto o in vernacolo era un rischio, perché non saremmo stati compresi al di là dei confini regionali. Io sono convinto del contrario, anche perché la maggior parte della recitazione passa dalla comunicazione visiva. Il vernacolo dovrebbe quindi tornare a essere protagonista, in teatro come al cinema. Non solo nelle commedie, ma anche nei film drammatici. Non è un problema di genere. Basta pensare a Gomorra e Romanzo Criminale…”.

Come vivi il confronto col passato e con i comici toscani? Ai tempi di Succo d’arancia, Vernice fresca e Aria fresca tu non eri ancora nato.

“Più che un confronto, la tradizione artistica toscana è per me oggetto di ammirazione e studio. Le trasmissioni di Conti, Panariello e Pieraccioni le ho recuperate e viste tutte una decina di anni fa. Erano fantastiche. Dopo qualche delusione col mio primo gruppo di amici, I Piccioni spennati, pensavo di smettere con gli spettacoli per dedicarmi solo al cinema. Poi mi sono imbattuto in Niki Giustini e Graziano Salvadori, prima in tv e infine dal vivo. Ero affascinato da quel modo straordinario di fare cabaret e d’interagire col pubblico. In quel momento è tornata la voglia di fare spettacoli dal vivo”.

Hai collaborato anche con Alessandro Paci e Massimo Checcherini.

“Con Paci e Kagliostro ho collaborato per ‘Attenti al tubo’ su Rtv38. Trasmettono ancora le repliche. Con Ceccherini ho vissuto la mia prima esperienza cinematografica partecipando ad alcuni degli episodi del film ‘Gli infami’, dove ho interpretato personaggi diversi tra loro. Lavorare con Massimo è stata un’emozione grande”.

Poi sono arrivati “I delitti del BarLume”.

“Bellissima esperienza. Non solo per il rapporto con il registra, Roan Johnson, ma anche e soprattutto per Filippo Timi. Recitare insieme a lui, all’inizio, mi ha fatto sentire fuori luogo. È un grande attore”.

A proposito della coppia Paci e Ceccherini: loro, insieme a Carlo Monni, portarono in scena Pinocchio. Nel vostro Cappuccetto Rozzo sembra ci sono alcuni omaggi a quella produzione. Il ‘fattone’ è uno di questi?

“In realtà no. Per quel personaggio ho tratto ispirazione da un video virale girato dall’autista di un autobus, a Firenze. C’era questo tizio un po’ ubriaco che continuava a ripetere le stesse frasi, come fosse un tormentone”.

A volte sembra di leggere anche qualche riferimento a Roberto Benigni.

La Toscana? Quando si parla di grandi artisti ha molto da offrire

“Bravo, su Benigni c’hai preso. Ho amato tutti i suoi film, primo tra tutti ‘Non ci resta che piangere’. Il nostro primo film, Oh quanta fila c’era, s’ispirava proprio a quello. Benigni ha esportato la toscanità nel mondo, per me è come una divinità. Più che un omaggio, quindi, la definirei un’influenza inevitabile. Cerco sempre di affermare il mio stile e la mia personalità, ma l’ispirazione si prende dai più grandi. E la Toscana, quando si parla di grandi artisti, ha molto da offrire”.

Come nasce Cappuccetto Rozzo?

“Devi sapere che all’inizio ai nostri spettacoli venivano solo amici e parenti. Però avevamo una specie di manager. Ci propose di partecipare a un festival dedicato alle favole con un pezzo da venti minuti. Così io e Riccardo iniziammo a scrivere questo testo, ma alla fine ci preferirono una band locale che aveva più minutaggio di noi. Però quel testo ci piaceva, così abbiamo proseguito nella scrittura realizzando il nostro primo spettacolo teatrale. Quello che originariamente doveva chiamarsi ‘Cappuccetto Rotto’ è diventato ‘Cappuccetto Rozzo’. Pensa che all’inizio volevamo fare i tre porcellini, ma nella favola c’erano troppi personaggi”.

Alla fine dello spettacolo fai salire sul palco tua sorella Martina, che vi dà una mano. Ma non è la sola della famiglia ad aiutarti, vero? Tra l’altro, durante il lockdown, li hai coinvolti tutti nei video con cui hai raccontato la quarantena.

“La famiglia mi hanno sempre seguito. All’inizio lavoravo nell’azienda di famiglia come lustrino. Però la voglia di esprimere la creatività era forte, così lasciai il lavoro. Non lo feci da un giorno all’altro, ma pianificai tutto mettendo da parte i soldi per poter girare il primo film. Inizialmente i miei genitori non mostrarono grande entusiasmo. Nonostante questo mi hanno sempre accompagnato. Hanno vissuto con me il cambiamento e i tanti sacrifici. Sai che non ho mai fatto una vacanza insieme ai miei amici? Ora mi sostengono moltissimo. Sono perfino felici di essere ripresi, si divertono pure. Non sentono il peso della telecamera, sono naturali, improvvisano. Guai a chiedere al mi’ babbo di ripetere una battuta nata istintivamente. Non ci riuscirebbe”.

L’ultimo grande sogno?

“Il comico è un traguardo fin troppo alto. Mi basterebbe fare l’attore. Anzi, il ‘quasi’ attore”.

Info
www.jonathancanini.it

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