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La condanna di essere donna in una società intossicata dagli stereotipi: la svolta nell’educazione all’affettività

Intervista a Giulia Vannucci, psicologa e psicoterapeuta che lavora nelle scuole e con le famiglie. “Educare i più piccoli e i genitori lavorando sull’empatia e sulla gestione delle emozioni. La violenza è sempre una scelta”. I segnali di una relazione pericolosa

Un bambina che annusa dei fiori

Gli stereotipi di genere sono come un corredo acquisito alla nascita, come una gabbia stretta, e la violenza è una scelta. Una società fortemente patriarcale, la nostra, dove le dottoresse sono ancora signorine e se dici primario è di sicuro un uomo. Dove la danza è uno sport da femmina e i maschi non posso piangere sennò, manco a dirlo, “sono femminucce”. Siamo in Italia, nel 2024, non negli anni ’60. Un contesto immutato da decennni, da secoli, l’unica cosa che è cambiata è la possibilità di parlarne. Un piccolo passo che è già rivoluzione e che porta con sé due consapevolezze: che è una strada ancora lunga e che deve coinvolgere tutte e tutti. Partiamo dall’educazione all’affettività che va strutturata nelle scuole e nelle famiglie. Ne parliamo con una professionista che, caso rarissimo,  la fa già nelle scuole, dalle elementari alle superiori: la dottoressa Giulia Vannucci, una psicologa e psicoterapeuta esperta in questo campo che lavora tra Lucca e Pistoia.

Giulia Vannucci

Dottoressa Vannucci, cosa si intende con educazione all’affettività?

L’educazione all’affettività serve a sviluppare il senso di empatia ed è legata all’educazione sessuale, al tema del consenso, alla gestione del rifiuto. Se si impara a rispettare le emozioni altrui e a mettersi nei panni dell’altro si è anche in grado di fermarsi davanti ad una mancanza di consenso, più o meno eslicito. Più se ne parla, più si fa alfebitizzazione emotiva, più si accrescono le competenze socio-emozionali e la valorizzazione del sé.

Da che età è importante e necessario affrontarla?

Da piccoli, ma agire solo sulle bambine e i bambini non basta: è importante sensibilizzare i genitori. Qualsiasi tipo e forma di comportamento è strettamente collegato allo stereotipo e ciò viene tramandato attraverso il comportamento non verbale. Il pensiero e il linguaggio sono connessi e si trasformano in azioni. Se lavoriamo solo con il bambino o l’adolescente e poi tornati a casa sono esposti sempre agli stessi modelli i risultati non ci sono, non inneschiamo il cambiamento.

Pensiamo a un iceberg alla cui base sommersa c’è il linguaggio sessista, la pubblicità sessista, la discriminazione nel lavoro e all’apice c’è il femminicidio. Quando parliamo di una donna uccisa, però, è perché è troppo tardi

Perché è sempre più importante parlare di stereotipi di genere?

Perché la violenza di genere è un costrutto socio-culturale e lo stereotipo di genere ci serve a categorizzare in modo più veloce ciò che è maschile o femminile nella realtà. Non accade anni fa, ma oggi: alcuni lavori di casa sono ancora percepiti da donna, altri da uomo. In alcuni cartoni animati c’è ancora la mamma che fa la torta e il babbo che va al lavoro. Molti dei pensieri e degli atteggiamenti derivano dall’osservazione e imitazione dei comportamenti non verbali e dall’utilizzo del linguaggio.

Anche di questo se ne parla molto adesso.

Sembra una banalità, ma può passare anche da qui. La presidentessa invece che la presidente fa parte di tutta quell’area sommersa che porta alla violenza di genere. Per spiegarmi meglio: immaginiamoci un iceberg alla cui base sommersa c’è il linguaggio sessista ed offensivo, la pubblicità sessista, il ricatto, l’oggettificazione della donna in tv, nei social, la discriminazione sul lavoro e nel salario fino all’apice dove c’è il femminicidio. Quando parliamo di una donna uccisa, però,  è perché è troppo tardi. Alla base di questa montagna semi-sommersa ci sono quindi anche gli allocutivi informali: le dottoresse sono signorine, ad esempio, e ci sono dei mestieri che non sono declinati ancora al femminile, come il primario o il chirurgo.

E questa percezione riguarda anche le bambine e i bambini?

Esco sollevata quando in una classe mi dicono che ognuno può fare quello che vuole,  ma poi se indago, di solito, le cose cambiano. Se chiedo quanti maschi fanno danza, nessuno alza la mano. A volte mi dicono: “Io l’avrei voluta fare, ma la mia mamma e il mio babbo non hanno voluto visto che sono maschio e mi hanno portato a basket”. Sport da maschio o da femmina è uno stereotipo radicatissimo, come nei giochi.

C’è un retaggio culturale che non ci scrolliamo di dosso. La sensazione è che proviamo a sradicare gli stereotipi con il linguaggio o altro, ma siamo ancora lontani dal cambiamento.

Purtroppo è così. I casi di cronaca ci dicono che il patriarcato esiste, che l’uomo ha il controllo della donna. Non c’è una gestione corretta del rifiuto se non con la rabbia. Basta pensare alla stereotipizzazione di genere delle emozioni. Ai maschi non è permesso di piangere, l’ira invece per loro è più sdoganata. Inoltre l’età di esordio delle azioni violente si è nettamente abbassata: mentre prima la fascia prevalente era 35-45 anni adesso è di 16-18 anni. La causa va trovata nei modelli che vengono proposti alle ragazze e ai ragazzi, sia in famiglia che negli ambienti di crescita.

L’età di esordio delle azioni violente si è nettamente abbassata: mentre prima la fascia prevalente era 35-45 anni adesso è di 16-18 anni

Non c’è una ricetta ovviamente, ma qual è il percorso di aiuto?

Sicuramente serve parlarne perché chi lo fa si pone il tema e sente la necessità di affrontarlo. Non è un passo da poco. Sento invece resistenza quando si affronta il tema dell’educazione sessuale nelle scuole e la paura dell’omosessualità, ma i genitori vanno aiutati ascoltando senza giudicare e facendoli riflettere. Nel percorso terapeutico partiamo dal presupposto che i genitori sono stati figli e mettono in atto, come tutti, il modello che hanno avuto. Alla nascita è come ci consegnassero una scatola, poi ognuno deve avere il coraggio di aprirla e scegliere cosa tenere e cosa lasciare ai propri figli.

Perché abbiamo la sensazione che le cose vadano sempre peggio nonostante ne parliamo di più?

Proprio perché ne parliamo di più, ma la differenza sostanziale è che ora possiamo farlo. C’è il film “C’è ancora domani” – andrebbe visto da tutti – che ben rappresenta la questione: quelle situazioni esistono oggi e le sento ogni giorno dalle persone che ho in cura. Adesso fortunatamente c’è una risonanza diversa perché le donne sanno che possono rivolgersi a dei centri specializzati, sanno che se hanno bisogno possono chiedere aiuto. Oggi c’è più sensibilizzazione, ma la strada è ancora lunga e lo dicono i numeri degli omicidi. Dobbiamo intervenire poi sugli uomini maltrattanti.

Come?

Credo molto nei centri di ascolto specifici. Educhiamo gli uomini perché se non imparano niente dal dolore che causano diventa poi quello il problema della società. Ma ci vuole molta volontà. Spesso questi uomini non iniziano i percorsi di cura nemmeno se sono obbligati dal tribunale. La dinamica è sempre la stessa: sono l’uomo l’alfa, l’emozione che mi hanno trasferito nel maschile è la rabbia e metto in atto questo. Non è una giustificazione ovviamente, ma a livello terapeutico è solo una lettura. Io conosco figli di maltrattanti che sono tutt’altro perché, è bene ribadirlo forte, la violenza è sempre una scelta. Non c’è nessun raptus, l’uomo sa bene cosa sto andando a fare.

La violenza è sempre una scelta. Non c’è nessun raptus, l’uomo sa bene cosa sta andando a fare

Ogni caso è diverso, ma ci sono campanelli d’allarme che indicano violenza in una coppia?

Sì, molto chiari ed è importante conoscerli e divulgarli. Ne dico alcuni. Accuse continue di infedeltà: vuole sempre sapere cosa la donna sta facendo, dove si trova; c’è mancanza completa di fiducia; controllo del telefono e quindi violazione della privacy giustificata sempre con” io ho bisogno di sapere quello che fai”. Poi impedire di andare a lavorare, di studiare, di avere un hobby individuale. Il controllo delle spese. L’isolamento, quindi divieto di vedere amiche e amici e spesso la famiglia. Insulti, critica continua, umiliazione dentro e fuori casa e questo, come valutazione del rischio, è maggiore perché l’uomo pensa di avere il potere totale sulla sua vittima. Altro campanello molto importante è questo: non sentirsi libera di dire ciò che si vuole in una discussione perché si ha paura delle conseguenze. In una relazione non si deve mai aver paura di parlare.

Come si libera la donna vittima di violenza?

Partiamo da una constatazione. Un altro stereotipo che ruota intorno alla violenza di genere è che tutte le donne che la subiscono siano poco intelligenti. La violenza può capitare a qualsiasi donna che sta attraversando un momento di fragilità o vulnerabilità. Viene umiliata giorno dopo giorno, colpita nelle sue fragilità e così, quando e se arriva il primo schiaffo, può pensare addirittura di esserselo meritato. Ogni giorno la violenza psicologica toglie un mattoncino al muro dell’autostima che poi inevitabilmente crolla. La richiesta d’aiuto può arrivare maturando l’amara consapevolezza che lui non cambierà. L’uscita dalla violenza è un percorso importante che richiede tanto coraggio e tempo. A maggior ragione ora, con la riforma Cartabia, dove alle donne è richiesto di essere più “lucide e veloci” nelle risposte e nei racconti, c’è bisogno di accompagnarle e di sostenerle psicologicamente ed emotivamente affinché i traumi vissuti possano diventare cicatrici meno dolorose e strumenti di riflessione per l’intera comunità.

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