OPINIONE/

La rivincita delle periferie. Pronte a spiccare il volo

La pandemia ha ridisegnato i bisogni della società. I centri storici svuotati devono provare a tracciare nuovi orizzonti. Vincono invece le città vive, quelle dove i residenti sono il vero zoccolo duro della micro-economia

Scandicci

Erano considerate quelle ai ‘margini’, le minori, quelle che stanno di contorno. Come fa l’albume con il tuorlo dell’uovo insomma. Ecco, non che il paragone voglia essere dei più azzeccati ma le periferie sono sempre state considerate nell’immaginario comune proprio come la chiara dell’uovo, un semplice contorno. Nel mezzo ci sono i centri storici, con una storia alle spalle di secoli, palazzi antichi e stemmi di nobili famiglie, torri, banche, musei e teatri. Bellezza, tanta. Da preservare, ci mancherebbe. Da tutelare, in ogni forma e modo. Le fabbriche dunque meglio tirarle su lontano dal bello, nelle piane dove i campi si perdevano senza lasciare fine allo sguardo. Il teatro si affidava alla parrocchia, a qualche circolino volenteroso. In alcuni casi le periferie sono arrivate pure ad avere un piccolo museo, giusto per rifarsi il trucco e atteggiarsi a signore come le sorelle maggiori. Eppure hanno fatto fatica fino a poco tempo fa a tentare il salto di qualità. Hanno fatto piccoli passettini, risultando però più paesoni che città. Poi ecco che qualcosa è cambiato.

Mentre prima della pandemia gli affari fioccavano e gli abitanti dei centri storici abbandonavano le loro case per trasferirsi fuori dal recinto delle ‘mura’ ecco che le periferie provavano a saltare più lontano

I centri storici delle città sono invece diventati negli ultimi anni luna park per turisti ossessionati dai selfie, le case dove vivevano le famiglie hanno lasciato spazio alle residenze per vacanzieri.   Una nuova economia l’hanno chiamata alcuni. Ma nel frattempo – mentre prima della pandemia gli affari fioccavano e gli abitanti dei centri storici abbandonavano le loro case per trasferirsi fuori dal recinto delle ‘mura’ – ecco che le periferie provavano a saltare più lontano, forti di portarsi dietro un’economia in crescita (almeno in alcuni settori) e soprattuto del fatto di essere città vive. Vive perché abitate non solo da gente di passaggio, vive di relazioni quotidiane e di costruzione di un futuro comune. Mica facile per i ‘brutti anatroccoli’ provare a guardare lontano, con l’handicap in tasca di chi parte in panchina con davanti i titolari inamovibili.

Poi la storia improvvisamente cambia il verso delle cose, le prospettive si ribaltano. Gli orizzonti vanno ricostruiti.  Le città d’arte sono svuotate da quelli che passavano per due giorni, le guardavano dal basso con torri di gelato tra le mani e selfiestick al cielo, le sfioravano senza troppa attenzione, calpestandone l’ego smisurato e la convinzione che la grandezza del passato non si cancelli. Lo chiamavamo nelle nostre chiacchiere da bar ‘il vivere di rendita’. Chi non sarebbe passato da Firenze, Roma, Venezia? Il turismo, milione più o milione in meno, non sarebbe mai mancato. Ma arriva sempre l’imprevisto a turbare la scena già scritta. E oggi le città sono giardini senza fiori, musei senza quadri. Motivo in più per ridare un senso a chi era rimasto ancorato al Cinquecento, al Seicento o comunque a troppi secoli indietro.

Preservare però la società, ecco a questo però non ci avevamo pensato. Abbiamo curato le nostre cattedrali, curato le piazze, restaurato i monumenti e ci siamo scordati di ‘nutrire il noi’ di sentimento comune

Niente di nuovo dopo se non preservare ciò che già c’era. Preservare però la società, ecco a questo però non ci avevamo pensato. Abbiamo curato le nostre cattedrali, curato le piazze, restaurato i monumenti e ci siamo scordati di ‘nutrire il noi’ di sentimento comune. Senza quel noi è stato facile lasciare che la propria ‘casa’ diventasse posto di vacanza e garanzia di reddito. Quando manca l’appartenenza si fa presto a cambiare casacca. Il calcio anche su questo insegna. E in campo ecco che sono scesi dunque i ‘brutti anatroccoli’. Si sono ripresi in mano la scena dai campi con i capannoni tecnologici, la moda, il progresso aziendale. Le fabbriche in fondo sono state le prime a ripartire in pieno lockdown. E dopo – dalla riapertura in poi – è toccato agli altri. Negozi, botteghe, estetiste e parrucchieri, sarte, calzolai, ristoranti e la lista potrebbe essere ancora molto lunga. Però – seppur con una crisi eccezionale – stanno tornando a battere scontrini.

Nelle città vive si è tornati ad una quasi normalità. A Scandicci, ad una manciata di chilometri da Firenze, hanno addirittura messo in piedi un cartellone di eventi per l’estate, per la propria gente, per nutrire quel noi anche con la cultura. La piccola Scandicci citata dal Wall Street Journal come ‘un puntino luminoso nella stagnante economia italiana’ o quella Bagno a Ripoli che ormai da qualche mese ha chiuso il progetto per il Centro Sportivo della Fiorentina, seppur con gli ostacoli al progetto che oggi arrivano dai vincoli della Soprintendenza. Poi c’è Campi Bisenzio che ancora lotta e non si arrende: vuole costruire lo stadio viola dentro i confini del proprio comune.

I piccoli avanzano, allungano il passo, disegnano schemi per arrivare dritti alla porta. Lo fanno anche i borghi, ancorati ad essere ai margini dei margini, decentrati e solitari. Appena due anni fa ne avevo visitati a decine in Toscana. Lottavano affinché gli uffici postali rimanessero aperti, così come le filiali delle banche. Si sentivano abbandonati. Oggi in questa estate per certi versi surreale sono popolati oltre l’immaginabile.  Nuove mete di un turismo che cerca spazi aperti e nuove rotte di rassicurazione.

Il cemento ci ha soffocato il respiro quando l’unica cosa che desideravamo era sentire aria nei polmoni

E’ la nostra psiche che ci porta nelle campagne dopo mesi serrati nelle case, vittime di architetti che ci hanno raccontato che per vivere basta un living di spazi comuni abbastanza grande e celle carcerarie nel resto della casa. Abbiamo sognato giardini, aria, spazio. Natura. Il cemento ci ha soffocato il respiro quando l’unica cosa che desideravamo era sentire aria nei polmoni. E oggi quell’aria è là, nei borghi disgraziati senza ufficio postale, senza banca ed a volte persino senza rete se si trovano nelle aree bianche, come piace chiamarle ai burocrati. Ora quelli con l’handicap perchè troppo lontani dal brulicare delle città riprendono dunque la loro dimensione ed un ruolo nello spazio sociale e geografico, tornano ad essere desiderati, a volte perfino sognati.

Un nuovo disegno è in atto e parte dalle esigenze del basso. E’ una bella sfida per tutti. Per i sindaci delle città d’arte che devono necessariamente rimettere al centro i cittadini, per le periferie che devono imparare ad osare oltre il consentito per crescere, per i borghi che potrebbero acquisire una nuova dimensione nel contesto generale.

“Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”, il quadro del pittore ottocentesco Paul Gauguin sintetizza al meglio quelle domande esistenziali che arrovellano il nostro piccolo cervello in cerca di risposte. Interrogarsi oggi su questo diventa necessario per un presente in radicale evoluzione. Il cambiamento a volte ti travolge prima che tu riesca a governarlo. A questo servono la buona politica, gli intellettuali, i pensatori folli, i visionari, coloro che non fermano il cervello ma provano a guardare oltre l’ovvio. A quelli che sanno leggere la visione d’insieme non lasciando fuori nessuno. Neppure quelli che possono sembrare brutti anatroccoli ma che – quando meno te l’aspetti – si trasformano in cigni. O almeno ci provano. Chi siamo? Dove andiamo? Proviamo a ripartire da qui.

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