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Città sommersa di Marta Barone: tra i relitti della memoria la storia del padre e di una generazione

Intervista alla scrittrice torinese, che presenta alla Città dei Lettori a Firenze il libro dove ricostruisce le mille vite di suo padre, aprendo una finestra inedita sugli anni Settanta in Italia

Un memoir, un romanzo di formazione, un’indagine personale e storica, un ponte tra mondi lontani. Impossibile classificare in maniera univoca Città sommersa di Marta Barone, che sarà a Firenze a presentare il suo libro domenica 30 agosto all’interno della Città dei Lettori. Un’opera multiforme come le mille vite del suo protagonista, il padre della scrittrice torinese che nel suo esordio si mette sulle tracce di quest’uomo ormai scomparso che forse non ha mai davvero conosciuto.
E così Leonardo Barone diventa L.B., il ragazzo che corre, lo studente, l’operaio, il militante della sinistra extraparlamentare e poi il medico imputato per terrorismo, condannato, incarcerato e infine assolto. L.B., che in carcere per poter capire la sua vicenda processuale si laurea in giurisprudenza e in seguito anche in psicologia, ancora una volta per aiutare gli ultimi.

L.B. che per la figlia è un mistero, come in fondo lo sono tutte le persone, persino quelle che abbiamo più vicino, e come spesso lo siamo anche per noi stessi. Questo abisso insondabile Marta Barone lo affronta con lo scandaglio potentissimo della sua scrittura e riportando in superfice i relitti del passato di suo padre finisce per raccontare quello di un’intera generazione, che ha vissuto gli anni Settanta.

Una finestra su un periodo controverso della storia italiana, alieno per chi come Barone è nato e cresciuto nei decenni successivi, quelli del benessere ostentato, della morte delle ideologie e in seguito della feroce crisi economica. Leggendo Città sommersa in questa calda estate pandemica, pensavo che questo libro, che è entrato in dozzina al Premio Strega, è uno dei più belli e importanti usciti in Italia negli ultimi anni anche perché è in grado di riallacciare le fila tra giovinezze diverse, tra illusioni forse opposte ma ugualmente perdute.

Marta, la memoria è al centro del tuo libro: quanto è stato difficile scrivere di questo incontro impossibile, quello tra te e tuo padre da giovane, di cui all’inizio della tua ricerca non possedevi neanche una foto?

Sul piano della difficoltà emotiva è stato molto più complicato parlare dei nostri rapporti, che dovevo in qualche modo spiegare al lettore per mostrare perché avessimo una relazione strana e perché fosse strano che improvvisamente mi interessassi a lui. Invece l’inseguimento del suo fantasma è stato entusiasmante, pieno di ostacoli, dolori e frustrazioni ma anche di emozioni (buone) intensissime. È anche stata la parte più difficile sul piano tecnico, perché avevo un tessuto talmente pieno di buchi che dovevo muovermi come su una tela di ragno sottilissima, e cercare di trarre vita e corporeità da quel filo esilissimo ma ancora iridescente.

A un certo punto tuo padre si trasforma in L.B., come se volessi prendere le distanza dalla sua dimensione per te più personale per poterlo vedere con maggior chiarezza: scrivi che se lui fosse stato vivo questo libro non esisterebbe, leggendolo ho pensato che l’hai trasformato in un personaggio letterario per poterti finalmente avvicinare davvero a lui e decifrare l’enigma delle sue numerose vite, è vero?

Ci sono due versi di Wilcock che dicono “per meglio rivederti mi allontano / così giovane, come una barca al sole“. Quindi è proprio come dici: ho dovuto distanziarmene per vedere il ragazzo e non mio padre, per poter creare il suo personaggio slegato da me.

Città sommersa è anche un’indagine sugli anni di piombo dal punto di vista della nostra generazione, per cui quelle scelte così drastiche, quella fortissima etica ideologica che sfociava nel delirante, sembra assurda. Mi ha colpito molto la frase che pronuncia uno scrittore che con tuo padre ha condiviso la militanza in Servire il popolo: “Abbi pietà di queste persone. Sono state divorate dalla Storia.” Pensi che anche L.B. sia stato divorato dalla storia?

No, e neanche molte delle persone con cui ho parlato. Lui ha compiuto scelte precise, anche se gli sono stati fatti torti pesanti, ingiustizie crudeli. Penso semplicemente che alla fine si sia ritrovato in un terribile vicolo cieco, come tanti altri; e dalla Storia sia stato espulso e infine lasciato indietro.

Il manicomio dei bambini, l’assalto all’Angelo Azzurro: nella tua esplorazione indietro nel tempo riporti a galla una Torino e anche un’Italia sommerse, fatte di tragedie che oggi sono andate quasi dimenticate. Quali tra le vicende che hai scoperto che ti ha colpita di più?

Molte di queste cose già le conoscevo, e sono tutte sconvolgenti in modi diversi. Diciamo che la ricerca sull’occupazione di strada delle Cacce e la scoperta di come funzionava l’assegnazione degli appartamenti, la totale arbitrarietà e lo scandalo intrinseco, mi ha colpito in modo estremo, proprio per le migliaia di persone che rimanevano, semplicemente, fuori. È stato uno dei passaggi più difficili da scrivere perché volevo renderne la violenza e l’ingiustizia senza sfociare nel sentimentale o nel pauperismo. Spero di esserci riuscita.

Se è vero come scrive Sandor Marai che “alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza” non c’è miglior esempio di L.B. che nonostante tutte le traversie e i cambiamenti radicali che costellano la sua vita alla fine appare sempre coerente con se stesso: ti aspettavi questo filo rosso che lega il bambino che odiava le ingiustizie con il militante e lo psicologo?

Non lo so. No. Tutto quanto lo riguardava mi sembrava disordinato o illogico. È affascinante scoprire come in una vita così sgangherata si possa trovare un disegno tematico. E alla fine così è stato.

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