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Gianfranco Pedullà una vita da regista: “Il teatro in carcere è una cura gentile”

Il regista che da anni realizza laboratori teatrali nelle carceri della Toscana, dal 2020 sta portando avanti un progetto con i detenuti dell’isola di Gorgona che proporrà uno spettacolo a Lastra a Signa il 18 e 19 aprile e sull’isola dal 21 al 27 maggio coinvolgendo le Scuole Medie Superiori, caso unico in Italia

Gianfranco Pedullà è un regista, specialista del teatro europeo del Novecento, che dagli anni ’90 è stato curatore di laboratori e spettacoli teatrali realizzati nelle principali Case di reclusione della Toscana, da Arezzo a Prato. Negli anni è stato consulente teatrale del Comune di Campi Bisenzio, del Comune di Arezzo, del Comune di Foiano della Chiana, della Provincia di Arezzo.

Ha trascorso due anni a Parigi, dove ha studiato teatro con Georges Banu, Peter Brook, Eugenio Barba. Tra le sue principali esperienze formative si segnala il laboratorio intensivo Le pratiche del narrare, organizzato dal Centro di sperimentazione teatrale di Pontedera, con maestri come Win Wenders e Andrej Tarkowski.

Nel 1980 ha fondato la Compagnia Mascara Teatro divenuta nel 1993 Teatro Popolare d’Arte, che opera guidata da una forte attenzione alla formazione del pubblico e lavora per un teatro ‘popolare’ di qualità, accessibile a tutti, al di là di ogni distinzione di età o di cultura.

Su queste basi il Mascarà/Teatro Popolare d’Arte ha ottenuto fin dal 1983 il riconoscimento ufficiale dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo, ora Ministero dei Beni Culturali e dal 1987 dalla Regione Toscana. 

Gianfranco Pedullà è, fin dalle origini, il direttore artistico della compagnia, per la quale scrive i testi e firma la regia. Gli spettacoli del Teatro Popolare d’Arte sono stati rappresentati in tutta Italia e in varie tournèe all’estero in Francia, Germania, Olanda, USA, Gran Bretagna, Russia, Croazia.

Dal 2020 sta lavorando con un nuovo progetto teatrale nel carcere dell’isola di Gorgona, nell’Arcipelago Toscano. 

Ecco la nostra intervista a Gianfranco Pedullà

Gianfranco sei nato in Calabria, come sei arrivato in Toscana?

Per una storia di quegli anni lì, gli anni ’60-’70. Io ero un ragazzo di 13 anni e i miei genitori mi portarono in Toscana perché c’erano quattro figli, uno stipendio solo, e volevano farci studiare. Negli anni ’70 non c’era l’università in Calabria. Per mantenerci tutti ci portarono a Firenze. Ho fatto il liceo scientifico a Scandicci, dove è nato un gruppo di teatro e lì è cominciata la mia avventura nel teatro. Faccio parte di quegli immigrati fortunati. Ormai sono fiorentino a tutti gli effetti ma non mi dimentico mai del sud, ci torno spesso d’estate. Tutto questo mi ha avvicinato molto ai detenuti.

Il teatro è una grande cura, una cura gentile. Non a caso è il linguaggio più antico con cui l’uomo si esprime

La tua prima esperienza con il teatro in carcere quando è stata?

Ho iniziato nel 1992 ad Arezzo, grazie a un laboratorio del Comune. L’assessora voleva ripetere ad Arezzo l’esperienza del Carcere di Volterra. Io non l’avevo mai fatto prima ma ero curioso e mi resi disponibile. Cominciai così, un tempo c’erano i mezzi economici per esperienze di questo tipo e l’idea di progettare, una cosa che oggi purtroppo non c’è più, come la curiosità istituzionale di provare cose nuove. Nacque così l’esperienza di Arezzo che ha fecondato molto. La Regione Toscana ha “seminato” e sostenuto molto il teatro in carcere, è stato fatto proprio un decreto per finanziarlo, una grande conquista di civiltà per la Toscana.

Quando si entra in carcere non ci si dimentica. Come hai parlato di tetro ai detenuti, persone forse lontane da questo mondo?

In quegli anni c’erano le prime immigrazioni che erano magrebine, io ho visto in carcere tutti i vari flussi migratori. Balcanici, albanesi, romeni, sono arrivati tutti piano, piano. Mi salvai con due cose: prima di tutto parlavo bene francese, gli arabi come seconda lingua hanno il francese. Il resto del carcere è principalmente meridionale: campano, calabrese, siciliano, ovviamente sto schematizzando. In quel caso tirai fuori la mia anima mediterranea, conosco i dialetti. L’italiano non è la lingua parlata in carcere, comprese le forze di polizia. I primi tempi non portavo con me altri collaboratori, quando poi ho capito meglio i meccanismi del carcere e ho accettato lo scandalo della violenza che è presente dietro le porte chiuse, piano piano ho formato un metodo teatrale che applico tutt’ora. Con il tempo ho acquisito strumenti psicologici, culturali e tecnici per mandare in scena persone che spesso sono analfabete.

Per esempio?

Pensavo a Pasolini che spesso ha usato persone non professioniste. Però la differenza qual è, è che il teatro è dal vivo. Devi sapere come si respira, come si parla in teatro, io cerco di rendere i detenuti consapevoli ed edotti del linguaggio teatrale, almeno dei fondamentali. Questo è un grande esercizio perché insegnare un nuovo linguaggio a qualcuno non è facile. Ho fatto una grande ricerca su questo e mi piace molto mandare in scena persone non professioniste ma molto motivate interiormente. I detenuti hanno una compressione vitale, dovuta alla mancanza di libertà. La reclusione sia nelle carceri migliori che in quelle peggiori è sempre una violenza, che subisci. Il corpo della persona, la mente, la sensibilità stessa è così compressa che appena gli dai uno spazio di libertà da se stessa, com’è il teatro, spinge per ritrovarsi a un altro livello. Interpretare una storia o un personaggio produce un effetto di benessere, di libertà dai casini che puoi aver combinato, o che la vita e la povertà ti hanno costretto a fare. Il teatro è una grande cura, una cura gentile. Non a caso è il linguaggio più antico con cui l’uomo si esprime. Ho avuto casi bellissimi negli anni. In carcere si incontra un’umanità molto variegata e molto interessante, spesso anche molto sofferenze. Ma io ho ricevuto tanto, almeno quanto ho dato, di questo sono sicuro.

Da qualche anno hai iniziato un progetto con il carcere di Gorgona, che è un luogo particolare perché i detenuti godono di maggiore libertà, possono lavorare all’aperto

A Gorgona ci ha chiamato il direttore del carcere quando è andato in pensione, Carlo Mazzerbo. Quando arrivi sull’isola la prima cosa che vedi scritta sui muri è una frase che dice che le pene sono votate al cambiamento delle persone alla rieducazione. Il direttore Mazzerbo che è una grande persona ci ha subito accolti bene, io avevo il contributo della Regione Toscana in dote da poter utilizzare. Così sull’isola ho ritrovato anche il mare, il sud. Il mare mi ha subito entusiasmato. Gorgona è un carcere diverso, da 150 anni è un luogo unico in Europa. I detenuti possono guadagnare dei piccoli stipendi lavorando part time, sai questo quanto significa per un detenuto. A Gorgona ho trovato terreno fertile, disponibilità delle istituzioni e persone di provenienze e culture diverse, questo è il bello del carcere che è un luogo multiculturale. Così è nata l’idea del “Teatro del Mare” che mi ha permesso, con l’aiuto dei miei colleghi, di creare tre eventi.

A Gorgona ho trovato terreno fertile, disponibilità delle istituzioni e persone di provenienze e culture diverse, questo è il bello del carcere che è un luogo multiculturale

Quali sono stati questi tre spettacoli?

Il primo è stato “L’Ulisse o i colori della mente” storia di un viaggiatore contemporaneo,che si è aggiudicato il premio “ANCT 2020 Catarsi – Teatri della Diversità” come miglior spettacolo di teatro sociale in Italia nel 2020. Si concentrava sulle storie delle singole persone viaggianti.  Il secondo spettacolo è stato più complesso, era itinerante sull’isola e partiva dalle “Metamorfosi” di Ovidio, è stato bello vedere i miti mediterranei rappresentati nell’isola. Una performance nella natura legata agli archetipi, con animali che entravano in scena. L’ultimo spettacolo che abbiamo realizzato è stato “Una Tempesta”, per cui in parte ho usato la traduzione di Eduardo De Filippo in napoletano.

Come si accede a questi spettacoli sull’Isola di Gorgona?

Il pubblico prende una nave di linea da Livorno la mattina, sono giornate molto belle e forti per chi viene. Riusciamo ad ospitare circa cento persone alla volta. Le persone arrivano verso le 10, prendono un caffè, vedono lo spettacolo. Poi si pranza tutti insieme con i detenuti, dopo pranzo c’è un incontro con la Compagnia e poi si fa il bagno. È una giornata speciale, davvero. 

Quando sarà il prossimo spettacolo sull’isola?

Quest’anno abbiamo deciso di riproporre sempre Una tempesta in due occasioni: dovrebbero darci il permesso di uscire quindi lo faremo al Teatro delle Arti di Lastra a Signa il 18 e 19 aprile, in una versione ridotta da palcoscenico. Ma ancora più interessante sarà dal 21 al 27 maggio quando faremo una rassegna di repliche per le Scuole Medie Superiori della Toscana. Questo è il primo esperimento in Italia, forse anche al Mondo, di scuole portate in un carcere. Sarà un momento importante, mi preme moltissimo parlare ai giovani. Nel teatro in carcere si muovono orizzonti inediti, qui davvero qualcosa può succedere. La funzione del teatro nella società sta cambiando.

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