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© Francesco Cabras

Storie /

Nel cuore del Mediterraneo per salvare chi fugge: Margherita Cioppi soccorritrice di TOM ci racconta la vita in mare

Il progetto TOM-Tutti gli occhi sul Mediterraneo è la prima flotta civile Arci per il monitoraggio in mare, la giovane volontaria toscana ci ha spiegato cosa significa salvare vite e restituire dignità a chi affronta la rotta della speranza

Ogni giorno nel silenzio del Mediterraneo centrale, donne, uomini e bambini affrontano il mare su gommoni di fortuna, in fuga da guerre, miseria, persecuzioni.

In quel mare, però, c’è anche chi ha scelto di esserci non per fuggire, ma per tendere la mano.

Margherita Cioppi è una giovane volontaria toscana, che con coraggio e determinazione, affronta ogni missione per salvare vite, dare un nome a chi rischia di diventare solo un numero.

Margherita è capomissione e soccorritrice di TOM-Tutti gli occhi sul Mediterraneo un progetto promosso da SailingFor Blue LAB, Arci e Sheep Italia per difendere e promuovere i diritti umani delle persone che attraversano il Mediterraneo e per denunciare le politiche dei governi che rifiutano di adempiere al dovere di soccorso previsto dalle convenzioni internazionali.

Il progetto TOM è una flotta civile Arci, composta tutta da volontari, che hanno scelto di dedicare dieci giorni al mese al monitoraggio del mare, di fatto il primo Circolo Arci navigante.

Abbiamo intervistato Margherita per farci raccontare cosa significa essere lì, dove spesso si chiudono gli occhi.

TOM – tutti gli occhi sul Mediterraneo – © Francesco Cabras

Ecco la nostra intervista a Margherita Cioppi

Ciao Margherita raccontaci come hai iniziato a lavorare in mare

Ho cominciato in maniera molto casuale, un amico mi ha offerto un imbarco. Nel frattempo nel Mediterraneo c’era un disastro e con gli amici del mestiere nautico che avevo intorno si discuteva e si litigava sul fatto che dovessimo fare qualcosa in qualche modo, però non avevamo gli strumenti per fare nulla se non le nostre barche. Questa è una discussione che abbiamo portato avanti dal 2019. All’epoca gli armatori evitavano le zone degli sbarchi, nessuno voleva scendere sotto Lampedusa, proprio perché sapevano che potevano imbattersi in situazioni di questo tipo. Anche i grandi mercantili evitano quelle zone, per lo stesso motivo. Era un tema che sentivamo vicino perché quando vai in mare la prima cosa che ti insegnano è che in qualsiasi momento tu abbia bisogno qualcuno viene a darti una mano e viceversa, perché in mare si fa così, è un dogma. Quando abbiamo visto che questa cosa vale solo se sei bianco e ricco abbiamo cominciato a ragionare su un modo più strutturale possibile per agire sulle emergenze.

quando vai in mare la prima cosa che ti insegnano è che in qualsiasi momento tu abbia bisogno qualcuno viene a darti una mano e viceversa, perché in mare si fa così, è un dogma

Com’è nato il progetto TOM-Tutti gli occhi sul Mediterraneo?

Abbiamo trovato una barca a vela straordinaria di 17 metri, una manna dal cielo perché è molto sicura, che ci è stata prestata da una signora e abbiamo attivato un programma di monitoraggio. Parliamo di monitoraggio perché non abbiamo una struttura operativa che possa essere definita una nave SAR cioè Search and Rescue. Noi siamo una barca a vela privata che è soggetta al codice della navigazione, siamo tutti volontari, e di fatto costituiamo il primo Circolo Arci navigante. Può fare un po’ sorridere ma ci riempie di orgoglio. L’associazione SailingFor Blue LAB, si è unita ad Arci e Sheep Italia per dare vita a questo progetto.

Quindi voi cosa fate di preciso?

Navighiamo più o meno dieci giorni al mese per portare assistenza, siamo tutti volontari, quindi dobbiamo anche lavorare nel resto del tempo. Quando le autorità non intervengono e noi individuiamo un pericolo di vita in mare procediamo con il trasbordo delle persone e la messa in sicurezza. Non siamo una ONG quindi stabilizziamo i naufraghi, poi chiamiamo la guardia costiera e li avvertiamo del problema in attesa che siano loro a recuperarli. A volte vengono a volte no. Ci siamo formati per poter intervenire in casi che possono essere molto diversi, perché non sai mai cosa ti trovi davanti. Poi trovare morti, malati, feriti.

TOM – tutti gli occhi sul Mediterraneo – © Francesco Cabras

Quanti salvataggi avete effettuato quest’anno?

Nell’ultima missione che abbiamo fatto dal 27 giugno fino all’8 luglio siamo dovuti intervenire su tre casi. Abbiamo sentito una chiamata radio di un pescatore, poi Radio Lampedusa ha diramato il mayday con le coordinate, dopo qualche ora siamo arrivati. Mentre stavamo aiutando queste 69 persone ci è arrivata un’altra segnalazione, con 20 persone in mare e altre 53 a bordo. In totale abbiamo messo in sicurezza 175 persone durante quattro giorni in mare. Questo non è un palmares è per dire che ci sono ancora persone in mare, anche se ora se ne parla meno. In passato c’è chi ha parlato di “pull factor” secondo il quale più ONG ci sono in mare più aumentano gli sbarchi, perché chi va in mare sa che sarà soccorso, ma è una stupidaggine. Non è il pull factor che spinge la gente ad andare in mare ma è il meteo, quando è bel tempo aumentano gli sbarchi. Quando si parla di sbarchi spesso se ne parla senza sapere qual è la realtà dei fatti. Senza le ONG in mare non è che ci sono meno sbarchi, le persone muoiono in silenzio.

Quando si parla di sbarchi spesso se ne parla senza sapere qual è la realtà dei fatti. Senza le ONG in mare non è che ci sono meno sbarchi, le persone muoiono in silenzio

Hai mai avuto paura durante un salvataggio?

La paura c’è sempre, la paura è quello che ti salva la vita, è diversa però dal panico. In qualsiasi momento qualcosa può andare storto, le incognite sono tantissime. La paura ti porta ad avere la massima concentrazione su quello che sta succedendo. Ogni sguardo, ogni parola, ogni movimento può essere quello che fa ribaltare l’imbarcazione che hai davanti. Per esempio l’ultima missione per me è stata pesante psicologicamente. Come ti raccontavo stavamo strasbordando 69 persone molto agitate, alla deriva da giorni, le stavamo portando al sicuro sulla nostra barca, ci abbiamo messo un po’ per stabilire una relazione di “crowd control” cioè gestione della folla. Mentre stavamo completando questa operazione che è molto delicata, difficile, mi è arrivata una comunicazione dal comandante che diceva che dovevamo sbrigarci per andare ad aiutare un’altra barca. In questi casi non si può correre, bisogna fare le cose con calma. Lui mi ha detto: ci sono 20 persone in acqua, 4 miglia più a sud. Io mi sono detta: non è possibile, stava andando tutto bene, eravamo quasi alla fine e stavamo per chiudere l’operazione col sollievo di dire sono tutti salvi. E subito ne è scattata un’altra. In quel momento ho pensato: allora non basto, quello che stiamo facendo non è abbastanza. Nel Mediterraneo ci vorrebbero 300 barche per salvare la vita a chi muore in mare. Quel momento per me è stato abbastanza tosto, perché 20 persone in acqua se non agisci velocemente sono morte.

Come comunicate con queste persone che non parlano italiano e forse neanche l’inglese?

Il passato coloniale dell’Europa porta tante persone a conoscere almeno una lingua europea, tanti sono francofoni soprattutto se provengono da paesi subsahariani, quindi di solito con loro parliamo in francese. Ma diciamo che nel primo approccio, quando noi li vediamo e loro vedono noi la comunicazione verbale incide di un 10% scarso su quello che effettivamente le persone capiscono. Usiamo un linguaggio distensivo che non riguarda solo la parola, ma anche come ti muovi, che tono di voce usi. Non ti serve parlare troppo in quei momenti. Poi quando arrivano a bordo si sentono al sicuro chissà dopo quanti mesi e si spalancano, ti raccontano tutto, chi erano prima di partire, che cosa è successo in Libia, esperienze traumatiche spesso.

TOM – tutti gli occhi sul Mediterraneo – © Francesco Cabras

Le persone che avete salvato da dove venivano?

Le persone che abbiamo soccorso venivano da Sfax in Tunisia, alcuni di loro erano stati già catturati in Libia e deportati nel deserto. Sono riusciti a scappare buttandosi da una gip e poi sono andati a piedi verso la Tunisia. Per loro è come un gioco dell’oca, lo chiamano “The Game”, per cui spesso appena passi il confine puoi incontrare la polizia del paese in cui sei appena entrato che ti riporta esattamente al punto di partenza, nel confine precedente, vai indietro di dieci caselle. Nei paesi del nord Africa c’è un forte razzismo nel confronto dei subsahariani. Negli ultimi mesi la tendenza è che queste persone attraversano in orizzontale il Sahara e partono dalle coste sud del Marocco, come Mauritania e Senegal verso le Canarie. Si è aperta questa nuova rotta che è pericolosissima. Se nel mediterraneo sei in Libia e punti a nord prima o poi qualcosa trovi che sia Lampedusa o l’Italia. Se punti le Canarie e sbagli l’angolo di dieci gradi ti trovi nell’oceano atlantico, cioè in mezzo al nulla. Per cui è una rotta molto pericolosa, ma il pericolo è minore rispetto ad essere catturati e imprigionati nei lager libici. Adesso questo trend sta un po’ diminuendo, i subsahariani stanno ricominciando ad arrivare in Tunisia, dove la Garde Nationale tunisina li cattura e li deporta in mezzo al deserto del Sahara, a volte li vende ai libici. Il nostro compito è anche quello di fare denuncia della violazione dei diritti umani che si verificano in quei paesi. La Libia per esempio non è uno stato sicuro, non ha un governo stabile, ci sono situazioni ampiamente borderline.

quelle barche non sono cariche solo di dolore e disperazione, ci sono forze, competenze e abilità nelle persone che noi soccorriamo che noi europei ci sognamo

A livello personale questa esperienza come ti ha cambiata?

Mi ha aiutata a rimettere la misura delle cose. Viviamo in un’epoca in cui l’asticella si alza sempre, lo stiamo vedendo con Gaza. Quello che sembrava impossibile qualche mese fa è diventato purtroppo quotidiano, reale. Da una parte è importante dire: questo non è più accettabile. Dall’altra ti rendi conto che sei un piccolo tassello in una bolla più grande che comprende tutti quelli che si impegnano per fare qualcosa di buono in questo mondo. Una bolla che è fatta di tante persone, tante competenze e tante modalità diverse. In vari luoghi e in vari modi ci proviamo, per noi le storie non nascono e finiscono nel Mediterraneo. Siamo l’anello di una catena che comprende la rete SAI (Sistema accoglienza integrazione), che cercano di trovare per le persone che arrivano in Italia l’inserimento lavorativo, una casa, un welfare che abbracci anche loro. Questo è incoraggiante, pensare di essere un pezzettino, per arrivare a una fase successiva che speriamo possa essere quella della riumanizzazione. Noi stiamo dicendo questo: sono persone. Lo slogan di Mediterranea era prima si salva, poi si discute. Noi siamo gente di mare e in mare si deve fare questo. Ci sono leggi e convenzioni internazionali che obbligano al soccorso e noi da umili marinai proletari non possiamo fare finta che non sia così. L’obbligo del soccorso non può valere solo per alcuni.

Quando ripartite?

Ripartiamo a fine agosto, adesso la barca deve riposare, ne ha bisogno. Intanto facciamo un po’ di raccolta fondi, TOM è un progetto che si finanzia dal basso grazie alla rete dei Circoli Arci, tramite gli eventi e il crowdfunding. Dopo i dieci giorni di agosto, ripartiremo poi i primi di ottobre e così tutti i mesi. Le partenze ci sono anche d’inverno, ci è capitato di soccorrere in novembre e in febbraio unità in difficoltà, anche se meno che in estate. Non vogliamo fermarci, se la barca dovrà stare un po’ in cantiere per manutenzione abbiamo un’altra barca a disposizione più piccola. In futuro stiamo pensando di usarle insieme per ampliare il raggio di ricerca. Stiamo riflettendo su come stare in mare il più possibile.

Dopo questa lunga chiacchierata cosa vorresti che arrivasse alle persone che ci leggono?

A livello climatico il mondo sta esplodendo, ci sono paesi in cui se ora ci sono 45 gradi tra dieci anni ce ne saranno 60. Quindi ci aspettiamo un fortissimo aumento del fenomeno migratorio che non è un fenomeno emergenziale, è un fenomeno naturale. Le persone si muovono nel mondo. Oggi però si pensa più a proteggere i confini che le persone. Dopo l’operazione Mare Nostrum il programma di salvaguardia della vita umana attuato nel Mediterraneo dalla Marina Militare e dall’Aeronautica Militare Italiana (2013-2014), è stata creata nel 2016 Frontex l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera che si occupa solo di controllare i confini e esce in mare con aerei con cui osserva e avverte per attuare i respingimenti collettivi. Questo avviene tutti i giorni, noi ne siamo stati testimoni.

Due temi sono importanti, il primo è che quelle barche non sono cariche solo di dolore e disperazione, ci sono forze, competenze e abilità nelle persone che noi soccorriamo che noi europei ci sognamo. Il secondo tema è che a me sembra sempre più assurdo che la mia vita da italiana possa essere in qualche modo minacciata nella sua sicurezza da una persona che ha un terzo dei miei diritti quando va bene, che non ha minimamente il mio privilegio, che ha meno di me. È chi ha di più che guadagna sullo sfruttamento delle persone, che minaccia la sicurezza, non chi arriva dal mare con un bambino di otto mesi in collo. Chi minaccia davvero la sicurezza delle persone non arriva dal mare in quel modo, arrivano con gli yacht a Porto Cervo e discutono del futuro della Palestina.

Per saperne di più: www.arci.it/TOM

Foto di Francesco Cabras

TOM-Tutti gli occhi sul Mediterraneo – © Francesco Cabras
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