Storie /LE TESTIMONIANZE

Le voci nella notte della Concordia: le storie dentro e fuori la nave

Tre storie per ricostruire quella notte: Nicla la passeggera, Alessandro il pianista e Giovanni il soccorritore del Giglio. Come è cambiata la loro vita

Intorno alla Costa Concordia squarciata e adagiata miracolosamente sui due scogli dell’Isola del Giglio, la notte del 13 gennaio 2012, si è intrecciata la vita e la morte, il coraggio e la paura, la solidarietà e l’incoscienza. Un unico e raro groviglio di umanità, che si è fa ancora fatica a sbrogliare. Le voci di quella notte –  dei naufraghi, dei soccorritori e dei gigliesi – si rincorrono e si accavallano nel buio freddo in mezzo al mare calmo e clemente, per costruire pezzo dopo pezzo una pagina già consegnata alla storia.

“E’ successo prima della Concordia” oppure “è accaduto dopo la Concordia”, così dicono i gigliesi, come chiuque altro fosse lì quella notte: la tragedia, come tutti gli eventi epocali, ha diviso il tempo in due. Per i  passeggeri, per i membri dell’equipaggio e per chi ha prestato soccorso, tutto è cambiato in pochi minuti; per 32 di loro tutto è finito. La verità processuale ha indicato la causa e i colpevoli, il tempo sta ancora provando a rendere giustizia ai vivi.

Il rumore del ferro che stride

Nicla Ciutini fa la parrucchiera a Firenze e sale sulla Costa Concordia alle 19 da Civitavecchia. Alle 21:57 il boato. “Non dimenticherò mai quel rumore: il ferro che stride, una sensazione terribile, e la nave che inizia a inclinarsi”. Lei era lì per un evento di lavoro, accompaganta dalla cognata sedute a cena in attesa di una sfilata. Aveva il tacco alto e il vestito elegante, poi all’improvviso la luce che salta. “Ci dicono che è un guasto elettrico, nessuno ci dava indicazioni e d’istinto saliamo dal settimo al nono piano, nelle nostre cabine. Abbiamo cambiato le scarpe e messo i giubotti, poi siamo saliti all’undicesimo piano, più lontano possibile dal mare”. Mantiene il sangue freddo anche se non sa nuotare. “Chiamo la mia famiglia, dico a mio marito di badare ai miei genitori se non ci vediamo, poi se ci si rivede meglio. Chiamo mio figlio e gli raccomando mio nipote. Gli dico: codesto bimbo crescilo bene. Usciamo fuori e non ci resta che scivolare, sbatto la spalla contro la balaustra, ma non sento nulla, né il dolore né il freddo. Poi riusciamo a salire su una scialuppa con la paura che la nave ci potesse cadere addosso e infine, finalmente, tocchiamo terra. Devo ringraziare i gigliesi che ci hanno aiutato, come Aldo Bartoletti (nella foto in alto con Nicla e la cognata, ndr). Con lui abbiamo stretto un’amicizia fortissima e ha sposato anche mia cognata”.

Arrivata al porto, infreddolita e ancora incredula,  si ritrova a casa di un muratore di Lecce che ha la sua casa proprio lì. “Cede la sua stanza a una mamma con un bimbo piccolo, ci dà coperte e asciugamani, apre il suo armadio e dice di prendere tutto quello che ci serve.  Capimmo cosa era successo e cosa abbiamo scampato quando qualcuno entrò in casa e ci disse che avevano recuperato tre corpi”. Nicla torna a Firenze e per 15 giorni non sente nulla, o meglio, crede di stare bene. “Ma mio marito mi diceva che la notte urlavo, poi all’improvviso mi venne un febbrone”. Tutto viene a galla, perché “non si dimentica una notte così, ma ho passato di peggio nella mia vita: ho perso mio marito. Da un anno e mezzo non c’è più, ora però ho i miei nipoti da crescere, ben tre, poi faccio volontariato e due volte alla settimana torno nel mio vecchio negozio di Porta Romana”. Non le manca mai il sorriso: “Vado avanti, ho tante cose da fare tutti i giorni. Tutti, tranne la domenica, quando sono più sola e penso. Ma poi arriva di nuovo il lunedì e si ricomincia”.

E’ innegabile, una cosa così il carattere te lo cambia

La sera dei miracoli

Per sbaglio il suo computer selezionò una canzone italiana, nonostante la playlist musicale fosse settata per un pubblico straniero, quello che si trova sulle navi a gennaio. “La sera dei miracoli” di Lucio Dalla è diventata così un presagio, un messaggio di vita per Alessandro Brandini, pianista sulle navi da crociera da 18 anni e sopravvissuto alla tragedia. “Ho fatto sei volte il giro del mondo, ho visto più Rio De Janeiro che Follonica”, scherza Alex, ma è davvero così la vita di chi sceglie di imbarcarsi. “Dopo quella notte ho chiesto di ritornare a bordo, e così ho fatto. Poi mi sono licenziato perché ho voluto cambiare vita”. Lui non partecipa alle commemorazioni, resta schivo, “dentro di me dico una preghiera. E’ innegabile, una cosa così il carattere te lo cambia”.

Di quella note ha ricordi nitidi, soprattutto dei volti amici che ha visto sulla scialuppa che lo ha portato a terra e di quelli che non ha più rivisto. “Quando la nave ha iniziato a inclinarsi  è scoppiato il panico e noi dell’equipaggio abbiamo cercato di fare il possibile. C’erano tante forme di paura diverse, grida, panico. Finalmente salimmo sulla scialuppa, ma qualcuno mancava”. Lui ricorda due suoi amici e colleghi che persero la vita: “Sandor Feheer un musicista che tornò indietro per recuperare il suo prezioso violino  e Giuseppe Girolamo, il batterista”, che cedette il suo posto in scialuppa a una famiglia.  “Per il futuro chiedo serenità. Ora vivo in campagna vicino Follonica, con i miei due cani e 11 gatti. Ma voglio viaggiare, di nuovo, e magari iniziare una nuova avventura artistica. Forse in Perù”.

Noi del Giglio resteremo sempre le persone di quella notte, ma adesso basta

Il riflesso giallo del fumaiolo sui soccorritori

“Avevamo solo la luce della luna a guidarci ed eravamo tutti gialli, immersi nel riflesso del fumaiolo della nave tanto gli eravamo vicini”. Giovanni Rossi vive al Giglio e di sera, all’improvviso, casa sua si inondò di luce: “Mi affacciai e vidi la nave a 500 metri da casa, leggermente inclinata e adagiata sugli unici due speroni che emergono dal mare della costa. Mi mosse l’istinto, mentre mi vestito chiamai un dipendente del Comune e gli dissi di accendere i riscaldamenti delle scuole”. Giovanni era assessore alla Portualità, ma è soprattutto un gigliese e come tutti gli isolani ha un forte istinto di sopravvivenza e molto senso pratico.

“Arrivato al porto vidi le prime scialuppe piene di persone arrivare, poi le imbarcazioni vennero abbandonate. Allora iniziammo a fare noi i viaggi, avanti e indietro. Solo io ne feci cinque, finche la nave non si inclinò, ma in quel momento tutti i gigliesi presenti sulla banchina erano o ad accogliere o in mare. Recuperavamo persone in acqua o sulla nave che lentamente si inclinava. Se ci penso ora, mi viene ancora paura: poteva caderci addosso in ogni momento”. Ma c’è un ricordo che per lui è l’immagine plastica della notte della Concordia: “Gli occhi di una persona disabile, in carrozzina, quando gli diedi la mia giacca: non ho mai visto tanta riconoscenza in uno sguardo”.

La macchina improvvisata dei soccorsi del Giglio funzionò alla perfezione: “Se vedi qualcuno in difficoltà lo aiuti, è normale. Poi la nostra fortuna fu di avere contatti diretti e una catena di comando molto corta, quindi immediata”. Poi arrivò il giorno dopo e l’istinto venne sostituito dalla ragione, dall’organizzazione e dalla gestione della situazione. “Ci fu tanta, tanta confusione. Anche quel turismo macabro. Che rabbia poi quei selfie con il relitto della nave alle spalle. La Concordia era una cassa da morto enorme, i corpi dovevano ancora essere tutti recuperati. Evitavamo do andare lì per non vedere tutto questo”.

A dieci anni esatti da quei momenti, ora l’Isola del Giglio spera in un nuovo spartiacque. “La tragedia ci ha segnato, ma non ci ha stravolto. Noi resteremo sempre le persone di quella notte – dice Giovanni – Ricordiamo perché ciò non accada più, per il rispetto delle vittime, ma ora basta. Speriamo che per questo decimo anniversario la Concordia fischi davvero per l’ultima volta”.

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