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Lo scrittore toscano Alberto Prunetti in lizza per il Premio Campiello con “Troncamacchioni”

Lo scrittore di Follonica che racconta le lotte della classe operaia è candidato tra i cinque finalisti del premio Campiello uno dei riconoscimenti letterari più prestigiosi in Italia. Il vincitore sarà svelato il 13 settembre a Venezia

Alberto Prunetti

Lo scrittore toscano Alberto Prunetti è un vero “underdog” nella scena letteraria italiana, non ha mai frequentato i salotti “della gente che conta”, viene dal proletariato puro, da un luogo selvatico come la Maremma.

Del mondo operaio ha fatto la sua bandiera a tal punto da diventare con “Amianto” (dedicato alla storia del padre, caduto del lavoro) e “108 metri” il punto di riferimento in Italia per la letteratura working class (dirige anche il festival omonimo presso l’ex GKN di Firenze) e una voce importante per le questioni legate ai diritti dei lavoratori e della sicurezza sul lavoro.

Uno dei suoi più grandi estimatori era Pepe Mujica che ha descritto Amianto come un libro impressionante”.

Con “Troncamacchioni” candidato al Premio Campiello 2025 Prunetti ha portato in libreria una storia diversa, dove resta comunque il suo sguardo autentico sulla sua terra e sulle figure degli emarginati che cercano la propria rivalsa, che non smettono di essere dei ribelli in nome di una giusta causa.

Troncamacchioni è la storia di uomini e donne irregolari nell’Alta Maremma agli albori del fascismo: anarchici e banditi, disertori e comunisti, personaggi arruffati che non hanno trovato davanti a sé una strada dritta e spianata, ma che sono stati costretti a sopravvivere e resistere ad ogni costo, con ogni mezzo necessario.

Ecco la nostra intervista ad Alberto Prunetti

Alberto, “Troncamacchioni” è un titolo che colpisce subito. Da dove arriva questa parola e che significato ha per te?

Questa domanda mi viene fatta spesso, è una parola che è in uso nell‘alta Maremma, nella zona dell’entroterra metallifero, Massa Marittima per intendersi. La macchia mediterranea è piena di arbusti e ti obbliga a piegarti a trovare una via andando a zig, zag. Invece i boscaioli e i carbonai si diceva che era gente che rompeva col petto la macchia, potevano permettersi di camminare a testa alta e petto aperto dentro il bosco, di forza, di prepotenza in linea retta. Questa cosa di andare “a tronca macchia” oggi viene usata molto per indicare qualcuno che vive di forza, di prepotenza e anche della giustizia delle proprie ragioni. È anche un modo per indicare chi non si china di fronte alla superiorità delle circostanze ma prova a imporsi.

Troncamacchioni è un modo per indicare chi non si china di fronte alla superiorità delle circostanze, ma prova a imporsi

Il tuo nuovo libro come i precedenti continua a esplorare l’universo della classe operaia, ma stavolta con una vena umoristica un po’ più marcata

È vero continuo a riflettere sulle storie dei lavoratori. In tutta la trilogia working class ho raccontato una storia familiare, mia, personale. Non mi piace usare usare il termine “autofiction”, non mi ci ritrovo per niente, però è vero che ho raccontato la storia di mio padre, mia madre e mia. A un certo punto ho sentito come un eccesso di “io”, di narrativa in prima persona, quindi sono andato a cercare storie diverse. La prima necessità quindi è stata allontanarsi dal mio vissuto, è un tentativo di fare una narrativa in chiave working class mescolando l’inchiesta con il romanzo storico

La Toscana che racconti è lontana dalle cartoline turistiche: ruvida, verace, spesso grottesca. Possiamo dire che è un atto politico raccontare un mondo che spesso viene ignorato?

Luciano Bianciardi e Carlo Cassola che scrissero “I minatori della Maremma” mapparono il territorio che sta al centro del mio racconto. Io da sempre ho cercato di raccontare una Toscana minore rispetto alla Toscana che va di moda, che si vende facile. Volevo raccontare l’altra faccia della medaglia, Piombino e i distretti minerari con la storia di mio padre, e ci ritorno adesso spostando questi luoghi nel passato. Io però non mi sento di fare una narrativa tanto “proloco”, anzi nel paese in cui sono accadute le storie che io racconto, che ho raccolto, sono storie difficili da digerire ancora oggi, perché sono storie divisive che scontentano un po’ tutti. Questi scontri tra fascisti e antifascisti, non è una storia che puoi raccontare in piazza, è difficile anche trovare il modo di raccontarla. Sono storie piene di ingiustizie che segnano una ferita nella comunità che ancora non è completamente cicatrizzata.

La tua scrittura è legata al territorio, ma parla anche di identità, dignità, memoria collettiva. Pensi che si possa parlare oggi di una narrativa sociale italiana?

Da sempre ci sono stati scrittori con un senso, un’interpretazione del loro lavoro di scrittura, soprattutto negli ultimi 20 anni, più attenti a raccontare la realtà, alcuni usano il termine “letteratura civile”, altri “letteratura sociale“, io stesso per anni ho partecipato a festival di letteratura sociale che si facevano a Roma. Se vogliamo la letteratura working class è più attenta, nel racconto civile conta l’indignazione, la responsabilità sociale, una forma di letteratura progressista. La letteratura working class è un po’ più complicata perché il rischio della letteratura civile è che spesso si fa in una “posizione di comfort”, senza vivere dentro le situazioni di cui si parla. Nella letteratura working class chi scrive è un operaio, un disoccupato in cassa integrazione, è un lavoro diverso, più difficile, che dà frutti importanti ed è importante non considerare questa narrativa come una forma di letteratura minore.

Il libro è in corsa per il Premio Campiello. Che significato ha per te questo riconoscimento, considerando la tua traiettoria letteraria così poco convenzionale?

La mia prima reazione emotivamente è stata molto forte, non me l’aspettavo. Mi ero dimenticato del Campiello, quando mi hanno chiamato sono rimasto scioccato. Per me è già un pezzo di vittoria essere nella cinquina, è un premio prestigioso ed è un premio attento a dinamiche meno commerciali, a mappare nella narrativa italiana territori più sperimentali, quindi ha una grandissima importanza. Io ho un percorso particolare, perché sono cresciuto in una casa in cui libri ce n’erano pochi e per me ha un significato ancora più forte. Al tempo stesso una parte di me era quasi preoccupata perché fare il Campiello significa andare in posti prestigiosi, ho una sorta di “sindrome dell’impostore”, sapevo che mi sarei mosso in territori diversi rispetto alle Case del popolo o i Circolini Arci dove mi sento a casa. 

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